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Il pipistrello di Nagel. Si immagini di essere un pipistrello e di doversi orientare, quasi ciechi e spinti dalla fame, in uno spazio buio cercando di acchiappare al volo dei piccoli insetti vaganti. In tale situazione i suoni assumerebbero improvvisamente una importanza cruciale, offrendoci l’unica possibilità di fare congetture sulla natura dello spazio circostante. Proveremmo qualcosa a essere un pipistrello che vola di notte a caccia di insetti? A questa domanda il filosofo americano Thomas Nagel ha risposto positivamente nel 1974 in un celebre saggio dal titolo: «Cosa si prova a essere un pipistrello?»1. L’esperimento mentale proposto da Nagel è particolarmente seducente. La tentazione di ripeterlo è talmente irresistibile che si è portati a estenderla senza posa. Animati da tale smania lo scienziato cognitivo statunitense Douglas Hofstadter e il filosofo Daniel Dennett hanno condotto i lettori di una loro fortunata antologia di scritti sul sé e l’anima, L’io della mente, a figurarsi come ogni sorta di essere animato e perfino di oggetto2. «Cosa si prova a essere una formica in fila verso chissà dove?»; oppure: «Che cosa si proverebbe a essere la nostra immagine allo specchio?», come nel film di fantascienza del 1969 intitolato Doppelgänger, in cui una astronave approda su un pianeta lontano dove ogni cosa sembra essere capovolta. L’intero corpo celeste appare come il doppione esatto e però invertito della Terra, come se fosse il lato interno del riflesso di uno specchio, qualcosa di simile al modo in cui le cose apparirebbero attraversando il celebre specchio del mondo meraviglioso di Alice3. Secondo Nagel, tuttavia, questo genere di azzardo immaginativo è ineluttabilmente destinato al fallimento perché gli sforzi creativi che è possibile mettere in campo saranno sempre insufficienti rispetto al risultato che si intendeva ottenere. Infatti, si voleva sapere cosa prova un pipistrello o una formica a essere ciò che sono, ma perfino l’immaginazione di Ludovico Ariosto non potrebbe che consegnarci una idea di cosa proveremmo noi in quei panni, mentre volevamo sapere cosa si prova a essere proprio quelle cose dalla loro prospettiva. Ecco una accattivante trappola argomentativa: la domanda di Nagel attrae così tanto proprio perché porta con sé la frustrazione necessaria a essere continuamente alimentata. Eppure introduce un tarlo nella comprensione del fenomeno della coscienza: forse l’unica prospettiva adeguata per apprezzare i dati della coscienza è quella della prima persona, di chi ha lo stato mentale di cui sta facendo esperienza. Gli zombies di Chalmers. Quante volte abbiamo fantasticato su come sarebbe mandare un gemello nei luoghi in cui non vorremmo andare? Hiroshi Ishiguro, un ricercatore giapponese dell’Università di Osaka, esperto nella realizzazione di robot, ha costruito davvero un suo doppio, ossia un gemello che gli somiglia in modo stupefacente, e ogni tanto lo manda, benché soltanto per scopi scientifici, a far lezione al suo posto4. Il geminoide di Ishiguro, il cui nome è Geminoid H1=1, è palesemente imperfetto. Per quanto molto somigliante, non è in grado di rispondere autonomamente alle domande e di simulare le reazioni spontanee degli esseri umani. È soltanto un sofisticato bambolotto comandato a distanza e dal viso particolarmente simile al suo inventore. Dispone di tredici motori nella testa e di diverse videocamere che consentono di rilevare le espressioni del volto degli astanti e gli conferiscono la mobilità facciale che ci si aspetta comunemente da un interlocutore. Ciò che servirebbe realmente per dar corpo alla fantasia di mandare un doppio al posto nostro è un gemello identico, del tutto indistinguibile da noi e magari esente da emozioni, in modo da non dover sopportare la fatica della situazione che si vorrebbe evitare. Sarebbe un individuo completamente adatto alle circostanze, in grado per esempio di sostenere una conversazione in modo appropriato, ma privo della partecipazione personale che di norma accompagna le esperienze che facciamo. Creature fantastiche di questo tipo esistono soltanto nelle fantasie dei filosofi, che le chiamano zombies. Gli zombies filosofici non hanno molte analogie con quelli, ben più noti, del cinema. Mentre questi ultimi fanno paura proprio perché hanno l’aria di essere appena usciti dalle loro tombe e non sembrano disposti a sentir ragioni, quelli filosofici sono del tutto adeguati alle circostanze, fanno quello che ci si aspetta da loro, a parte il fatto che non provano nulla, e proprio per tale prevedibilità hanno un comportamento che non desta alcuna particolare curiosità. Gli zombies filosofici non esistono. Ma è perfino dubbio che abbia senso immaginarseli e ragionarci su. Come potrebbe un individuo dotato di un corpo identico al nostro e immerso nelle circostanze in cui ci imbatteremmo noi non provare nessuna delle sensazioni che di norma accompagnano la vita consapevole? Dietro tale fantasia non c’è forse l’errata convinzione che la vita mentale, invece che essere il frutto del funzionamento di un certo corpo nel suo ambiente, sia qualcosa che abita i corpi e si muove nel mondo come se si trattasse di un semplice accidente, in qualche modo estraneo alla vita concreta? Il filosofo australiano David Chalmers, che ha invitato la comunità dei filosofi a intrattenersi con tale fantasia, sostiene che la semplice concepibilità di tali creature solleva la questione della qualità soggettiva dell’esperienza cosciente e rende difficile sostenere il fisicalismo, ossia l’idea che ogni evento mentale sia riducibile a qualcosa di fisico5. Se riusciamo a immaginare un individuo identico a noi, ma privo della partecipazione personale e soggettiva alla scena di cui è attore, allora vuol dire che tutte le spiegazioni che si riesce a mettere in campo per rendere conto del fenomeno della coscienza riguardano il modo in cui gli stati mentali sono connessi l’un l’altro per produrre la sensazione della consapevolezza, ma non dicono nulla su come dalla massa umida e molliccia del cervello sorga il dono fenomenico dell’esperienza consapevole. Ma è dubbio quanto sia lecito cavare dalla semplice concepibilità di qualcosa, si tratti di creature fantastiche come gli zombies filosofici o di Dio. Cosa si può derivare dall’idea che, se vogliamo pensare a Dio come alla creatura più perfetta che sia possibile (quo maius cogitari nequit), allora dobbiamo concepirlo anche come esistente, pena la circostanza che altrimenti ci sarebbe qualcosa di ancora più perfetto? Secondo Anselmo d’Aosta, che nel suo Proslogion del 1077 ha presentato questa argomentazione in modo incalzante, se ne dovrebbe derivare che l’esistenza di Dio è provata6. Ma molti altri, dal monaco francese Gaunilone a Immanuel Kant, hanno obiettato che la realtà non è obbligata a soddisfare le nostre pretese e che, dopo tutto, dall’essere eventualmente costretti a ritenere che qualcosa sia in un certo modo non segue che tale convinzione soggettiva abbia un riscontro nella realtà. Su un piano diverso, ma non del tutto dissimile, come facciamo a cavare dalla semplice concepibilità di creature fantastiche del tutto simili a noi, ma prive della partecipazione personale che la consapevolezza fornisce ordinariamente, qualcosa di vincolante per una teoria della coscienza che la consideri incarnata in un corpo e immersa in un ambiente concreto? 7. George Mashour dell’Università del Michingan e Eric LaRock dell’Università di Auckland ritengono che mentre gli zombies filosofici sollevano i difficili problemi astratti appena menzionati, esistono altri tipi di zombies che pongono problemi concreti alla pratica medica. Si tratta degli zombies invertiti8. Mentre quelli filosofici sono creature immaginarie che si comportano come se fossero consapevoli mentre in realtà sono soltanto automi, gli zombies invertiti sembrano non essere coscienti, quando in effetti lo sono. La cosa notevole è che, a differenza di quelli filosofici, gli zombies invertiti esistono davvero. Il fenomeno della consapevolezza durante l’anestesia è un esempio di questo tipo. Sfortunatamente in una percentuale di circa uno o due casi ogni mille, i pazienti sottoposti a un’anestesia generale conservano durante l’intervento a cui vengono sottoposti una forma di consapevolezza. Addirittura la percentuale giunge al 22% se si considera l’attività onirica delle persone sottoposte a una anestesia che non sia dovuta a un intervento d’urgenza, segno che durante gli interventi il cervello si «spegne» meno di quanto si possa ritenere9. I pazienti colpiti da tale fenomeno non manifestano alcun segno convenzionale di consapevolezza, come la mobilità e la reattività comunicativa, ma di fatto continuano a provare qualcosa anche quando i medici sono invece convinti che siano completamente privi di sensi. La circostanza solleva problemi delicati. Come possiamo rilevare la qualità soggettiva dell’esperienza consapevole in modo più preciso di quanto non ci consenta di fare la pratica clinica oggi in uso? Se non possiamo essere certi che un individuo che si comporta come noi abbia davvero il nostro stesso genere di vita interiore qualitativa, possiamo almeno essere certi dell’assenza di tali sensazioni in un paziente? Il problema riguarda sia la tecnica medica sia la filosofia della mente. Del resto già nel 1947 Henry Beecher, un pioniere della anestesiologia moderna, si era reso conto che «con gli anestetici disponiamo di uno strumento per produrre a comando e mantenere con un rischio modesto diversi livelli di consapevolezza – uno strumento che promette di essere di grande aiuto nello studio dei fenomeni mentali»10. I casi di anestesia fallita pongono problemi nella cui soluzione sembrano entrare in qualche modo anche alcune oscure questioni filosofiche come quella sollevata dall’esperimento mentale degli zombies. Si può essere teoricamente incerti sul peso da affidare alla ricerca sul lato fenomenico e soggettivo della coscienza, ma occorre riconoscere che perfino la pratica medica, oltre che il senso comune, sembra considerevolmente interessata al lato più ineffabile dell’esperienza consapevole. Mary, la neuroscienziata reclusa. Mary è una neuroscienziata esperta di visione. Anzi, nel suo campo di studi è la più brava al mondo; non ci sono aspetti e fenomeni di neurofisiologia della visione di cui lei non conosca ogni cosa sia dato sapere. Sfortunatamente è nata all’interno di un laboratorio in bianco e nero da cui non è mai uscita. Così sa tutto quello che c’è da sapere sui colori anche se non ne ha mai visto uno, eccetto le sfumature di grigio della casa laboratorio. A questo esperimento mentale, proprosto dal filosofo australiano Frank Jackson, si può accostare un caso reale. Nel suo L’isola dei senza colore il neurologo americano Oliver Sacks racconta gli strani avvenimenti dell’atollo di Pingelap, nel Pacifico occidentale, in cui, a causa dell’isolamento genetico a cui l’isola è andata incontro dopo il tifone distruttivo che l’ha colpita nel 1775, si è diffusa una popolazione che nel dieci per cento dei casi è affetta da acromatopsia. I pazienti affetti da tale sindrome non riescono a vedere nessun altro colore se non il bianco e il nero11. Sia Mary sia gli abitanti di Pingelap non vedono le cose se non come in un vecchio film, ma Mary si trova in una condizione migliore degli sperduti isolani del Pacifico, dato che dopo tutto può abbandonare la sua prigione e scoprire la varietà cromatica delle cose. Se avesse finalmente accesso allo scintillante mondo a colori che sta proprio oltre la soglia del suo laboratorio e si trovasse di fronte a un bel rosso rubino, proverebbe qualcosa ad avere questa nuova esperienza?, oppure il contatto diretto con la nuova realtà non aggiungerebbe alcuna conoscenza a ciò che Mary già sa? Se si ritiene che con l’esperienza dei colori le sue conoscenze ne risulterebbero accresciute, allora si crede anche che la qualità soggettiva dell’esperienza non sia riducibile al semplice funzionamento del corpo. Analogamente a quanto abbiamo ricordato a proposito degli zombies di David Chalmers, anche l’esperimento mentale della neuroscienziata in bianco e nero milita contro il fisicalismo e la sua pretesa di risolvere ogni fenomeno mentale in termini di configurazioni fisiche che sopravverrebbero sulle proprietà degli stati mentali12. I pipistrelli di Nagel, gli zombies di Chalmers e la neuroscienziata reclusa di Jackson suggeriscono che nella coscienza c’è un lato che richiede un resoconto formulato in prima persona e che è refrattario alla riduzione della vita interiore nei suoi termini biologici e fisici. La coscienza non sembra un fenomeno che possa essere considerato esclusivamente dalla prospettiva della terza persona, come avviene normalmente con la tettonica a zolle o l’analisi del peso atomico del cadmio. Al contrario, essa richiede l’assunzione della prospettiva del portatore di quegli stati mentali che gli procurano quella sensazione di consapevolezza di cui vorremmo comprendere la natura. Il filosofo newyorkese Ned Block ha proposto di catturare questo aspetto della coscienza distinguendo tra una «coscienza d’accesso» e una «coscienza fenomenica»13. La coscienza d’accesso è quella che sperimentiamo quando monitoriamo uno stato mentale allo scopo di controllare l’azione o quando forniamo un resoconto verbale di ciò che stiamo pensando, per esempio in una conversazione. Questo lato della coscienza ha il vantaggio di essere esplorabile in termini funzionalistici. Basta comprendere il ruolo giocato da un dato stato interno nell’economia dei processi cognitivi in cui è coinvolto. La maggior parte delle acquisizioni scientifiche sulla coscienza sono relative al lato funzionale della faccenda. Ma secondo Chalmers la qualità soggettiva dell’esperienza consapevole – i qualia – è il vero problema difficile della coscienza, ciò che William James chiamava coscienza personale e che considerava come qualcosa di irrimediabilmente ineffabile14. È dubbio che quando sapremo tutto ciò che c’è da sapere sull’architettura funzionale degli stati cerebrali che costituiscono i fondamenti neurobiologici della consapevolezza sapremo anche ciò che importa dei qualia e della relazione che essi hanno con la struttura del cervello. Contro questo scetticismo, tuttavia, sono state sollevate parecchie obiezioni. Il critico più tagliente è Dennett, secondo cui dei qualia e dell’intero bestiario della prospettiva in prima persona dell’esperienza consapevole faremmo senz’altro meglio a non preoccuparci affatto, dato che non si tratta che di ostacoli per la comprensione scientifica della coscienza15. Il problema è che i qualia hanno un effetto causale sul comportamento manifesto e la loro attribuzione guida nella predizione comportamentale, come si vede dall’osservazione di parecchi casi della vita ordinaria. In certe piscine c’è una scala attraverso cui si scende per gradi. Nell’immersione le persone si fermano per più o meno tempo sui vari gradini, presumibilmente per l’effetto del cambiamento della temperatura del corpo a contatto con l’acqua. Per quanto ci siano delle regolarità in tali sensazioni (nessuno è particolarmente turbato durante l’immersione dei polpacci), il ritmo con cui un individuo scenderà i gradini è largamente imprevedibile in quanto dipende soprattutto dall’effetto personale prodotto dal mutamento termico. Esempi di questo tipo potrebbero essere moltiplicati a piacere e testimoniano l’importanza che la qualità soggettiva dell’esperienza consapevole ha nella determinazione del comportamento osservabile. Si potrebbe dire che l’effetto comportamentale dei qualia influenza, se non sempre il contenuto delle azioni degli individui, almeno il loro stile. T. Nagel, What Is It Like To Be a Bat? (1974), in Philosophical Review, 4, pp. 435-50; trad. it. in Id., Questioni mortali, Milano, Il Saggiatore, 1986. ii D. Dennett , D. Hofstadter, The Mind’s I: Fantasies and Reflections on Self and Soul (1981), New York, Basic Books; trad. it. L'io della mente. Fantasie e riflessioni sul sé e sull'anima, Milano, Adelphi, 1993, pp. 392 sgg. iii Doppelgänger (noto anche come: Journey to the Far Side of the Sun), di Robert Parrish, 1969. L. Carroll, Alice’s Adventures in Wonderland (1866), Oxford, Macmillan. Id., Through the Looking Glass (1872), Macmillan, Oxford; trad it. Alice nel paese delle meraviglie. Attraverso lo specchio, a cura di M. Graffi, Milano, Garzanti, 2009. iv Alcune informazioni sui robot di Ishiguro sono reperibili visitando il sito del suo Laboratorio: http://www.ed.ams.eng.osaka-u.ac.jp/index.en.html. v D.J. Chalmers, The Conscious Mind: In Search of a Fundamental Theory (1996), Oxford, Oxford University Press; trad. it. La mente cosciente, Milano, McGraw-Hill, 1999. vi A. d’Aosta, Monologio e Proslogio (2002), a cura di I. Sciuto, Milano, Bompiani. E. Scribano, L’esistenza di Dio. Storia della prova ontologica. Da Descartes a Kant (1994), Roma-Bari, Laterza.v. G. Giorello, Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo (2010), Milano, Longanesi, pp. 158 sgg vii Esiste una certa letteratura sull’argomento di D. Chalmers sugli zombies. Ecco un saggio per tutti: R. Kirk, Zombies and consciousness (2005), Oxford, Oxford University Press. viii G. A. Mashour, E. LaRock, Inverse zombies, anesthesia awareness, and the hard problem of unconsciousness (2008), in Consciousness and Cognition, XVII, pp. 1163-1168. ix K. Leslie, H. Skrzypek, M.J. Paech, I. Kurowski, T. Whybrow, (2007). Dreaming during anesthesia and anesthetic depth in elective surgery patients: A prospective cohort study (2007), in Anesthesiology, 106 (1), pp. 33-42. x H. K. Beecher, Anesthesia’s Second Power: Probing the Mind (1947), in Science, vol. 105, n. 2720, pp. 164-166. xi O. Sacks, The Island of the Colorblind (1997), New York, Vintage Books; trad. it. Id., L’isola dei senza colore, Milano, Adelphi, 1997. Le basi genetiche di questo specifico disturbo sono più chiare grazie agli studi di Olof Sundin e dei suoi colleghi: O.H. Sundin, J-M Yang, L.Yingying, Z. Danping, J.N. Hurd, T.N. Mitchell, E.D. Silva, I.H. Maumenee, Genetic basis of total colourblindness among the Pingelapese islanders (2000), in Nature Genetics, 25, pp. 289 -293 .xii F. Jackson, Epiphenomenal Qualia (1982), in Philosophical Quarterly, 32, pp. 127-36. xiii N. Block, On a Confusion about a Function of Consciousness, in Behavioral and Brain Sciences (1995), vol.18, n.2, pp. 227-47.xiv W. James, Principles of Psychology (1891), London, Macmillan, vol. 1, p. 225.xv D.C. Dennett, Quining Qualia (1988), in Consciousness in Modern Science, a cura di A. Marcel, E. Bisiach, Oxford, Oxford University Press, pp. 42-77. |
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