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Della documentalità vorrei discutere brevemente due questioni che si riferiscono però a punti che a me paiono decisivi nel considerare l’approccio metodologico e la proposta teorica che caratterizzano la teoria di Ferraris. Due questioni che per molti aspetti rispecchiano una struttura bipartita propria della teoria stessa. In una sorta di prima parte, infatti, Ferraris si impegna ulteriormente attorno alla necessità di sottolineare la distinzione tra ontologia ed epistemologia e alla delineazione di una ontologia sociale fondata su un testualismo debole che si differenzia tanto da un realismo forte, come anche da un testualismo forte e da un realismo debole. La seconda parte è invece esplicitamente dedicata a quella che viene chiamata come la legge costitutiva degli oggetti sociali, legge secondo la quale «Oggetto=Atto inscritto» e attraverso la quale Ferraris produce una teoria originale sugli oggetti sociali. Vorrei dunque qui proporre alcune considerazioni intorno a due punti e che riguardano (1) il nesso fra ontologia ed epistemologia e (2) il nesso fra iscrizioni e spirito (1) La distinzione fra ontologia ed epistemologia costituisce una sorta di principio base di tutto il discorso di Ferraris. Una distinzione che sostanzialmente dice che una questione è che una cosa ci sia (ontologia) e un’altra questione è come noi poi si conosca quella cosa (epistemologia). Si tratta evidentemente di pratiche di discorso differenti, che rispondono ad esigenze differenti, e il loro deflagrare l’una dentro l’altra produce non solo confusione, ma quello che appare come un vero e proprio errore (che Ferraris aveva già precedentemente rintracciato nel trascendentalismo kantiano, letto per molti aspetti come una sorta di origine delle diverse ermeneutiche e dei diversi atteggiamenti postmoderni) dove la realtà viene scambiata con la sua interpretazione o con la sua costruzione. Ora non è il caso qui di riaprire la discussione (è già stato fatto altrove) circa l’appropriatezza della lettura di Kant proposta da Ferraris [1]. Quella che vorrei proporre è semmai una problematizzazione della tesi di fondo di Ferraris circa la differenza fra ontologia ed epistemologia, tesi che ritengo prima facie metodologicamente corretta e tuttavia anche a un tempo non così pacifica e nella sua pratica e nella sua struttura teoretica di fondo. Ferraris insiste nel dire che nelle nostre pratiche discorsive quotidiane noi tendiamo a confondere questi due livelli, per cui tendiamo a proiettare la nostra conoscenza del mondo sull’essere del mondo, quasi che le cose fossero effettivamente qualcosa solo in quanto le conosciamo come cose. Una tale prospettiva, sottolinea ancora Ferraris, ha una sua plausibilità per gli oggetti sociali, nel senso che ad esempio ‘un comizio’ esiste effettivamente perché qualcuno lo riconosce come tale e lo fa essere tale. Ma questo non vale, ad esempio, per l’aria che consente a colui che sta svolgendo il comizio di far arrivare la sua voce a coloro che lo stanno ascoltando, perché l’aria, a differenza del comizio, esisterebbe anche se non ci fosse qualcuno che la riconoscesse come aria e anche se non ci fosse la voce che l’aria in qualche modo trasporta da un luogo a un altro. E tuttavia se noi spesso tendiamo a fare confusione tra l’esistenza di qualcosa e il fatto che noi riconosciamo qualcosa come esistente, forse in questo c’è anche il segno di un problema che vale la pena di essere guardato più da vicino. L’ontologia, dice Ferraris, è quello che c’è. Ecco, non credo sia una semplice sottigliezza evidenziare che l’ontologia non è in realtà quello che c’è, ma è il discorso intorno a quello che c’è. E per quanto non si voglia sostenere (almeno io non lo voglio sostenere) che il linguaggio è uno schema concettuale che ci farebbe vedere il mondo come vuole lui, per cui parlanti lingue diverse vedrebbero anche realtà diverse, penso però che nelle parole ci sia sempre una sorta di residuo epistemologico che non è semplice e immediato grattare via. Per esempio, parlando degli oggetti naturali – quelli nei quali l’ontologia deve essere nettamente separata dall’epistemologia – Ferraris riprende la distinzione di Dietrich von Hildebrand in i) eide (le cose semplici, verrebbe da dire), ii) unità morfiche, ovvero oggetti dotati di una unità intrinseca, ma contingente (gli organismi, ad esempio) e in iii) aggregati che sono gli oggetti naturali prevalentemente inanimati di cui per lo più abbiamo esperienza. Ora, nel dire questo, nel proporre una tale classificazione ontologica degli oggetti naturali siamo davvero sicuri di non trovarci implicati in questioni che hanno a che fare con l’epistemologia e dunque con il nostro rapporto conoscitivo con quegli enti? La distinzione tra unità morfiche e aggregati (che in qualche modo risale alla distinzione platonica ed aristotelica tra to holon e to pan) è davvero una distinzione indipendente dalle nostre pratiche conoscitive sul mondo? Quando noi diciamo di qualcosa che è un organismo siamo davvero sicuri di muoverci dentro una netta separazione tra ontologia ed epistemologia? In termini molto generali quando si parla di organismi si parla di quegli enti naturali che sono i viventi. Eppure, se si guarda all’origine moderna del concetto di organismo le cose risultano alquanto complesse [2]. Come alcune ricerche hanno messo in evidenza, la parola organismus, per quanto compaia all’interno di alcune fonti medievali, viene di fatto usata per la prima volta in un contesto scientifico negli scritti di medicina e fisiologia del medico e fisiologo tedesco Georg Ernst Stahl a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo. Quello che però si sottolinea con forza all’interno di queste ricerche è che per tutto il Settecento la parola indica non tanto una tipologia di oggetti, quanto piuttosto una modalità di organizzazione degli oggetti. Sarebbe solo alla fine del Settecento e nei primi anni dell’Ottocento (dunque in seguito alla Critica della capacità di giudizio di Kant) che la parola inizierebbe a indicare quella peculiare tipologia di oggetti che sono i viventi, diventando progressivamente un termine tecnico delle scienze della vita [3]. Anzi, la cosa che è interessante notare è che per molti aspetti i concetti di organismo e macchina che oggi si tende a cogliere come termini che si riferiscono l’uno al mondo naturale e l’altro al mondo artefattuale nel primo pensiero moderno sono spesso sovrapposti o sovrapponibili e indicano entrambi la struttura di una organizzazione che unifica una pluralità di parti che interagiscono fra loro. Machina non indica infatti in Leibniz, ad esempio, esclusivamente il prodotto artificiale, ma costituisce un concetto che indica un’unione organizzata di parti distinte, in cui ciascuna parte è strumento (organon) correlato alle altre. La nozione di machina è, in questo senso, contrapposta non tanto a quello di organismo, quanto piuttosto a quello di una aggregazione confusa e disordinata (come può essere ad esempio un mucchio di pietre o una catasta di legna) [4]. Certo Leibniz non passa sopra la differenza tra strutture organizzate in cui l’origine dell’organizzazione delle parti è esterna – tale per cui essa richiede l’intervento di un produttore che porta a realizzazione il progetto di costruzione – e strutture in cui l’assetto organizzativo delle parti è invece spontaneo. Ma questa differenza non è tanto all’origine in Leibniz della distinzione tra macchina e organismo, quanto piuttosto della differenza tra l’artificiale e il naturale. Tanto è vero che per indicare le strutture organizzate a partire da un intervento esterno Leibniz può usare il termine organica artificialia, mentre per indicare le strutture che si organizzano da sé, che si automantengono e che si riproducono egli può usare l’espressione macchine naturali. È invece con Kant che gli organismi (gli enti organizzati di natura) vengono pensati per differenza non solo rispetto agli aggregati, ma anche rispetto alle macchine ed è perciò a partire da Kant che la parola ‘organismo’ assume una connotazione ontologica che precedentemente non aveva. Dire che le parole non sono mai neutre e che la loro storia rivela oscillazioni e slittamenti significativi non solo rispetto alle nostre forme di organizzazione e classificazione degli enti del mondo non significa attribuire alle parole la capacità di costruire le cose, ma solo renderci avveduti che i nostri modelli di organizzazione del mondo (e quindi le nostre ontologie) non sono mai del tutto indipendenti rispetto ai modi in cui si vanno a sviluppare i significati delle parole. Significati che evidentemente si svolgono dentro una storia e risentono, in essa, delle nostre pratiche di rapporto conoscitivo con il mondo. Insomma, quello che non riesco a sottovalutare è il fatto che l’ontologia è un discorso. In relazione a questo, muovendosi sempre all’interno del discorso di Ferraris, viene da chiedersi: che tipo di ente è il linguaggio? Difficile catalogarlo tra gli enti naturali, che occupano spazio e tempo e sono indipendenti dai soggetti. Difficile anche catalogarlo tra gli enti ideali che anche non dipendono dai soggetti. Nella misura in cui risente di una serie di pratiche sociali lo si può forse considerare esso stesso un oggetto sociale. Ma gli oggetti sociali, come sostiene Ferraris stesso, proprio in quanto dipendono dai soggetti senza essere soggettivi, non sono e non possono mai essere del tutto impermeabili alle credenze dei soggetti e dunque a ciò che chiamiamo epistemologia. E se l’ontologia in qualche modo dipende dal linguaggio, essa non sembra poter essere immune da strutture epistemologiche che la intenzionano. Questo non significa sostenere che il mondo dipenda dai nostri schemi concettuali. Significa però riconoscere un certo grado di astrazione in una distinzione aproblematica tra ontologia ed epistemologia. (2) La seconda questione che vorrei toccare riguarda il nucleo più originale del libro di Ferraris, che è sostanzialmente una teoria degli oggetti sociali, ovvero una giustificazione degli oggetti sociali alternativa rispetto a quelle disponibili “sul mercato” e di cui evidenzia i limiti. Per discutere di questo punto chiamerò in causa una nozione che non compare mai esplicitamente nella formulazione della teoria di Ferraris, ma che io ritengo particolarmente importante per comprendere la sua operazione: la nozione di naturalismo. Se è vero infatti che il dibattito filosofico va spesso condensandosi attorno ad alcune parole-chiave, la parola naturalismo è una di quelle che ha giocato più di altre un ruolo di questo tipo in questi ultimi anni. E tuttavia, come spesso accade alle parole-chiave, la nozione di naturalismo è anche passibile di diverse interpretazioni. Come nota giustamente David Papineau alla voce Naturalism della Stanford Encyclopedia of Philosophy, se si assume il termine naturalismo nella sua accezione più generale che implica il rifiuto di un ricorso a entità sopranaturali e la convinzione che la scienza sia la fonte principale in grado di farci conoscere il mondo, comprendendo nel mondo anche le nostre teste e quello che sta dentro alle nostre teste, la maggior parte dei filosofi contemporanei non ha difficoltà a riconoscersi come naturalista [5]. Il motivo per il quale secondo me è interessante riferirsi alla questione del naturalismo in relazione all’operazione di Ferraris è che egli con la sua teoria degli oggetti sociali di fatto riconosce che esiste una sfera della nostra esperienza – quella che appunto ha a che fare con l’ontologia sociale – che non appare del tutto naturalizzabile. Il suo tentativo però sembra proprio quello di andare oltre quelle prospettive che, pur non volendosi presentare come antinaturalistiche, si ritrovano, secondo Ferraris, alla fine ad esserlo. Di questo tipo è l’obiettivo polemico principale del lavoro di Ferraris, e cioè la teoria degli oggetti sociali proposta da John Searle in La costruzione della realtà sociale, il quale fa ricorso, per dare giustificazione di questo particolare tipo di oggetti, a un’entità che Ferraris sottolinea come appunto misteriosa, inafferrabile e priva di una sua qualche collocazione (e dunque, verrebbe da dire, supernaturalistica) come è appunto l’intenzione collettiva. Per dirla un po’ rudemente, la teoria che propone Ferraris – che trova nella legge ‘Oggetto=atto inscritto’ la legge costitutiva dell’oggetto sociale – è un tentativo di “far fuori” l’intenzione collettiva come fondamento dell’ontologia sociale o per meglio dire di togliere quell’elemento di aleatorietà, di mistero (e quindi di sovrannaturalità) che albergherebbe in una nozione come quella di intenzione collettiva. Gli oggetti sociali, piuttosto che da intenzioni collettive (che non si sa bene secondo Ferraris cosa sono e dove sono) nascerebbero da iscrizioni, registrazioni, documenti. Gli oggetti sociali sono infatti per Ferraris risultati di atti sociali (che coinvolgono dunque almeno due persone) caratterizzati dal fatto di essere iscritti. A differenza dell’intenzione collettiva le iscrizioni si sa cosa sono (sono tracce prodotte da un atto) e si sa dove sono (possono essere su carta, su supporti di vario tipo o anche nelle nostre teste). In questo modo diventa possibile fornire, dice Ferraris, una visione monistica (ed è un monismo, il suo, che a me appare di tipo decisamente naturalistico) «delle leggi della natura e dello spirito attraverso un autentico sviluppo evolutivo, quello delle iscrizioni, e non attraverso l’intervento di un deus ex machina, l’intenzionalità collettiva» (Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce. Roma-Bari, Laterza 2009, p. 249). Là dove l’intenzionalità collettiva rimanderebbe, secondo Ferraris, necessariamente a un dualismo di fondo, presentandosi come una sorta di anello di congiunzione tra natura e spirito, le tracce sono invece «qualcosa di materiale» (ibidem). Ciò che si tratta di vedere è se questo processo di naturalizzazione dell’intenzione collettiva attraverso le iscrizioni funziona davvero. Dei limiti e della parzialità dell’operazione è consapevole lo stesso Ferraris là dove osserva, ad esempio, che «le iscrizioni fuori, sulla carta, non bastano. Sono necessarie le iscrizioni interne, ossia le nostre menti che si rapportano con le altre attraverso l’imitazione» (ivi, p. 220) L’imitazione sembrerebbe avere il ruolo di sostituire, per molti aspetti, l’intenzione collettiva: se l’intenzione collettiva è secondo Ferraris quella sorta di ghiandola pineale che dovrebbe connettere natura e spirito, la sua funzione, nella teoria della documentalità, è svolta proprio dall’imitazione, la quale, però, a differenza dell’intenzione collettiva è qualcosa di giustificabile naturalisticamente e sarebbe in grado di spezzare il dualismo che invece l’intenzione collettiva presupporrebbe. Ora, io non sono del tutto sicuro che l’imitazione sia sempre in grado di sostituire l’intenzione collettiva o che sia davvero una cosa del tutto diversa dall’intenzione collettiva. A me sembra che il problema (che era problema anche per l’intenzione collettiva) che permane sia quello della condivisione. Certo, condividere una traccia, un segno, (e questo è il contributo importante della teoria di Ferraris) è sicuramente meno “impegnativo” in termini di giustificazione della condivisione di una intenzione. Ma la maggiore confidenza della traccia non dice ancora nulla del perché una traccia venga condivisa. L’atto della condivisione non sembra cioè essere contenuto nella traccia che testimonia e consente la condivisione. Ferraris ne è consapevole: registrazioni e tracce da sole non bastano a costruire una società. E infatti ci sono tracce solo per menti capaci di registrarle (ivi, p. 260). In questo riconoscimento mi pare si ponga il problema che attraversa tutta la seconda parte del lavoro di Ferraris, quella dove si sostiene l’antecedenza della lettera rispetto allo spirito. Cercando di esplicitare quanto più possibile l’elemento di perplessità legato a questo punto direi che Ferraris convince intorno alla potenza dell’iscrizione e della scrittura nella costruzione della realtà sociale. Non convince altrettanto nell’idea che attraversa tutta la teoria (e che a me pare dipendere da un’esigenza di evitare possibili letture supernaturalistiche) per cui l’iscrizione, la lettera, sarebbe il primo a partire dal quale assume significato qualcosa come una realtà sociale. Quello che non riesce a convincermi del tutto del progetto di Ferraris è l’idea stessa che le iscrizioni, nelle loro varie forme, precedano e producano lo spirito. E questo non perché, si badi bene, io ritenga che invece lo spirito preceda e produca le iscrizioni. L’idea non convince in quanto riproduce questa differenza tra l’iscrizione e lo spirito che pure essa vorrebbe togliere. Il percorso di Ferraris sarebbe più convincente se mirasse a dimostrare non tanto che le iscrizioni precedono e producono lo spirito, ma che le iscrizioni sono di fatto esse stesse lo spirito, che le spirito è qualcosa solo nella sua oggettivazione, nel suo esporsi e dunque nelle sue iscrizioni. Ma questo non significa che le iscrizioni producano lo spirito. Certo, Ferraris ha buon gioco nel mostrare ad esempio come tutti i tentativi di “creare” l’Europa per via spirituale abbiano prodotto sostanzialmente nulla di concreto e come invece degli accordi, dei trattati e dei documenti abbiano effettivamente prodotto qualcosa di realmente esistente che potrebbe essere il primo vero passo in direzione anche di quello spirito europeo che né gli scritti di Novalis, né quelli di Husserl sono stati in grado di produrre. Eppure è persino banale osservare che quei trattati, quegli accordi e quei documenti non ci sarebbero stati se non si fosse avvertito un bisogno, un interesse e in generale un qualcosa come un’intenzione (impulsi, questi, ai quali forse gli scritti di Novalis e Husserl non sono del tutto estranei). E sostenere questo non significa necessariamente sostenere che dunque gli oggetti sociali sono il prodotto di una intenzione collettiva. Quello che sostengo è che la teoria che pretende di spiegare gli oggetti sociali attraverso le iscrizioni per quanto abbia il vantaggio di proporre un nesso causale lineare (il che è un grande vantaggio per una prospettiva naturalistica o naturalizzante) non riesce tuttavia a rendere adeguatamente conto del perché delle iscrizioni, del perché dei trattati. La pretesa di Ferraris di sostituire la fenomenologia dello spirito con una fenomenologia della lettera si basa, secondo me, su una concezione astratta (mi verrebbe da dire spiritualistica e antinaturalistica) dello spirito. Quello che si capisce infatti da una Fenomenologia dello spirito come quella di Hegel è che lo spirito non esiste fuori dalle sue oggettivazioni, che lo spirito è le sue oggettivazioni. Certo le oggettivazioni – le quali nascono da bisogni ed esigenze che sono essi stessi spirito – sono a loro volta iscrizioni. Ma questo, ancora una volta, non significa che le iscrizioni producano lo spirito. Significa che le iscrizioni sono spirito. Si potrebbe dire che l’iscrizione è ciò che segna il passaggio alla concreta oggettivazione. Ma l’iscrizione è a sua volta il frutto di qualcosa che non è iscrizione e che l’imitazione a me sembra non riesce a spiegare fino in fondo. Nel rapporto tra lo spirito e le sue oggettivazioni accade, si potrebbe dire, qualcosa di simile a quello che avviene in generale nell’ambito dell’azione. Generalmente quando consideriamo un’azione presupponiamo che esista qualcosa alle spalle di quella azione che chiamiamo intenzione. In realtà, però, non abbiamo da una parte l’intenzione e dall’altra l’atto. L’intenzione, infatti, finché rimane tale, non è nulla di concreto, non appartiene al mondo. Se io avessi avuto intenzione di leggere il libro di Ferraris, ma non lo avessi poi preso in mano, non avessi diretto il mio sguardo sulle pagine di cui è composto e sulle iscrizioni di cui esse sono intessute, quella mia intenzione sarebbe in realtà nulla. Al tempo stesso, però, senza l’intenzione non mi sarei procurato il libro di Ferraris, non l’avrei aperto e non l’avrei letto. Ovviamente questo non significa che la mia azione sia semplicemente la traduzione di una intenzione. L’azione è davvero tale solo quando entra nel mondo. E quando entra nel mondo assume un corso che non dipende più solo dall’intenzione. Non c’è dunque in realtà nessuna antecedenza dell’intenzione sull’atto o dell’atto sull’intenzione. L’azione è l’insieme dell’intenzione e dell’atto e non a caso noi non la valutiamo mai né semplicemente come atto, né semplicemente come intenzione. Per riassumere, riprendendo due espressioni di Ferraris, dire che lo spirito non si dà senza lettera (a) non significa dire, come dice invece Ferraris, che lo spirito è un risultato della lettera (b). Tra (a) e (b) non c’è un reale rapporto di consequenzialità. Io credo infatti che si possa dire (e Ferraris porta ottimi argomenti al proposito) che lo spirito non si dà senza lettera. Ma non credo che questo autorizzi a dire (e su questo gli argomenti di Ferraris mi sembrano meno convincenti) che lo spirito è un risultato della lettera. L’impressione è che la tesi che sostiene che lo spirito è un risultato della lettera sia solo il rovesciamento della sua tesi opposta, quella secondo cui la lettera è il risultato dello spirito. Solo che, in questo modo, continuiamo ad avere tra le mani e una lettera e uno spirito. E il problema forse sta proprio qui: nella nostra insistenza a considerare le lettere come un’altra cosa dallo spirito e lo spirito come un’altra cosa dalle lettere. Note [1] Cfr. A Ferrrarin (a cura di), Congedarsi da Kant. Interventi sul Goodbye Kant di Ferraris, ETS, Pisa 2006. [2] Per un primo orientamento, cfr. F. Duchesneau, Les modèles du vivant de Descartes à Leibniz, Paris 1998. [3] Organism’ from the Seventeenth to the Nineteenth Centuries, «The British Journal for the History of Science», 39, 2006, pp. 319-339. [4] Cfr., su questo, A. Nunziante, Organismo come armonia. La genesi del concetto di organismo vivente in G.W. Leibniz, Verifiche, Trento 2002. [5] Cfr. http://plato.stanford.edu/entries/naturalism/ |
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