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Nella sua teoria della documentalità, Ferraris distingue quattro gradi di conoscenza: 1) il “vedere semplice”, non filtrato da concetti: incontro un’immagine; 2) il rappresentare, mediato da concetti (nell’immagine che vedo riconosco un uomo, so dirne l’età, lo stato d’animo che manifesta, e, se sono uno che guarda la televisione, so anche che si tratta di Piero Angela); 3) possedere conoscenze (che possono essere basate sull’autorità altrui, come è il caso della conoscenze di Piero Angela rispetto al dna o alle piramidi egiziane); 4) avere scienza, e cioè opinione vera accompagnata da ragione (la definizione del Teeteto) o, nella definizione completa proposta da Ferraris, avere opinione vera accompagnata da ragione e sancita da documenti istituzionali (che fanno del tale un dottore, del tal altro un professore, etc.). Sulla base di questa tassonomia della conoscenza Ferraris traccia alcune conseguenze che interessano la vita morale: «Qui la conoscenza è indubbiamente un vantaggio, ma ci sono circostanze — tutt’altro che infrequenti — in cui l’azione deve svolgersi in una situazione di conoscenza parziale, lacunosa o quasi nulla. Eppure continuiamo ad agire, perché la vita ce lo impone. In certi casi, l’ignoranza è addirittura un bene: non sapere quando moriremo, o se Dio esista, oppure se siamo liberi o no, non è affatto un male. Nel primo caso, se lo sapessimo, saremmo paralizzati. Negli altri due, l’agire morale non avrebbe senso, perché comportarsi bene al cospetto di un onnisciente (o anche semplicemente di fronte ai carabinieri) non è merito, ma paura; e agire per necessità, come una pietra che rotola, è pura fisica. Si potrebbe addirittura argomentare che una decisione morale che si svolgesse in base a un puro sapere non sarebbe una decisione» (2009: 120). Quale concezione di “sapere” è implicita in questa argomentazione? Se sapessi che Dio esiste perché me l’ha detto il rabbino avrei più o meno la conoscenza di Piero Angela. Il rabbino però, a sua volta, non è propriamente uno scienziato, pur essendo riconosciuto istituzionalmente come qualcuno che di Dio sa più di me. La prescienza della morte, così come la conoscenza della libertà o necessità delle nostre azioni, non si incontrano, né si possono conoscere se, come ci ha spiegato Ferraris, per avere conoscenza si intende avere scienza. Rimane la possibilità di una conoscenza metafisica, attingibile in modi però non contemplati dalla tassonomia di Ferraris. Poniamo tuttavia che si possa sapere (in qualche modo non precisato), che effettivamente siamo esseri determinati. Non sono sicura che ne seguirebbero conseguenze disastrose per l’azione, se è vero che l’azione si svolge in un mondo che è primariamente quello dell’esperienza. Se sapessi che un genio maligno mette nella mia testa tutti i pensieri che ho, che ricaduta avrebbe questa conoscenza sul fatto che sto facendo una promessa a qualcuno, che qualcun altro mi ritiene responsabile di un furto, o che vorrei essere stimata da un terzo? Se le azioni appartengono a buon diritto al mondo dell’esperienza, allora, o il genio maligno è implicitamente rappresentato come parte dell’esperienza, oppure non si vede perché il nostro essere necessitati in senso metafisico debba necessariamente assumere un ruolo devastante. Per esempio si potrebbe sostenere con Strawson (1974: 1-25) che, pur ammettendo di non saper nulla riguardo alla natura metafisicamente necessaria o libera delle nostre azioni, se riflettiamo sulla nostra esperienza scopriamo che cose come agire per necessità o agire liberamente continuano ad avere senso. Posso dire “quando ho fatto ciò (una promessa, un debito, etc.) non ero in me”, e chi mi ascolta intende che non ero lucida (perché arrabbiata, spaventata, in preda a un mal di denti devastante, sotto l’effetto di droghe, etc.), ma tutte queste eventuali limitazioni della mia normale capacità di agire sono pienamente comprensibili all’interno di un mondo di esperienza che esclude sempre e in ogni caso una conoscenza assoluta. Seguendo questo ragionamento, la conoscenza in campo morale può essere sì paralizzante, ma non quando si immagina qualcosa che oltrepassa i limiti del sapere umano (il genio maligno, Dio, etc.), bensì proprio quando, all’interno di quei limiti, illumina di una luce completamente diversa le azioni che facciamo o che abbiamo fatto. In altre parole, la conoscenza raggiunta da Edipo (ho ucciso mio padre e commesso incesto con mia madre) ha un effetto paralizzante perché gli dice che è stato proprio lui a compiere quelle azioni, e che, proprio perché è stato lui, ora non può più rappresentare se stesso come il legittimo re di Tebe, e, soprattutto, non può più vivere con altri che sanno questo di lui [1]. È da questo tipo di conoscenza, e non da eventuali conoscenze strappate ad un mondo aldilà del mondo, che possiamo venire paralizzati nell’agire. Chi si immagina di accedere alla conoscenza adombrata nel passo che ho citato mi pare sia preda di una fallacia: da un lato assume che conoscere sia ciò che ci ha spiegato Ferraris (avere opinione vera accompagnata da ragione e sancita da un’istituzione), ma dall’altro adotta surrettiziamente un senso diverso di conoscere (Dio, la libertà, la necessità metafisica). Sulla base di questa ambiguità si proietta poi in un mondo paradossale (sono qui ed ora di fronte ai carabinieri, ma sono anche qui ed ora preda degli incomprensibili schemi del genio maligno, o del benevolente piano divino). Tuttavia gli strumenti della scelta morale rimangono invariati: so che ai carabinieri devo far vedere la mia patente, e alla fine mi rappresento il genio maligno o Dio più o meno come un carabiniere che potrebbe portarmi in prigione, o che forse sarebbe possibile blandire in un modo o nell’altro. Se invece, come parrebbe necessario, ammetto di non saper nulla di Dio, della necessità o della libertà nei sensi di conoscenza ammessi da Ferraris, non ho un oggetto d’esperienza (Dio, o il genio maligno) da contrapporre sul piano della bilancia morale al carabiniere che mi chiede i documenti, e quello che succede dipende sostanzialmente solo da me e dal carabiniere. Riprendiamo quindi la definizione di scienza proposta da Ferraris: opinione certa accompagnata da ragione e sancita da un’istituzione. Riguardo a questioni come Dio, necessità e libertà mi pare si apra, nell’orizzonte di Ferraris, una risposta in fondo paragonabile a quella offerta da Hobbes quando, nel Leviatano, distingue la vera religione dalla mera superstizione: «Il timore di una potenza invisibile, frutto di una finzione della mente o immaginata sulla base di dicerie ammesse ufficialmente si chiama RELIGIONE; se manca l’ammissione ufficiale, è detto SUPERSTIZIONE e, se la potenza immaginata è veramente come la si immagina, VERA RELIGIONE» (2008: 46). Ho appena detto che la mia scelta di fronte al carabiniere che mi chiede la patente, una volta eliminata la fallacia della conoscenza assoluta, dipende di fatto da me e dal carabiniere. Ma a ben guardare questa conclusione non è corretta. La mia scelta dipende, oltre che da me e dal carabiniere, da un complesso apparato di oggetti sociali senza i quali né la patente che mi viene chiesta, né le mostrine del carabiniere, né la sua pretesa, né la mia preoccupazione avrebbero alcuna ragion d’essere. La patente, il carabiniere, il mio status di cittadina, la strada, il semaforo che non ho rispettato, tutto ciò è frutto di una legge, che, come argomenta Ferraris, si può ridurre alla formula «Oggetto sociale = atto Iscritto». D’accordo con Searle, Ferraris stabilisce che la caratteristica fondamentale “di oggetti come le presidenze del consiglio e gli avvisi di garanzia, diversamente dalle mucche e dalle montagne, è che esistono solo se ci sono menti disposte a credere che ci siano” (2009: 162). In disaccordo con Searle, Ferraris non ritiene però che per presidenze del consiglio, avvisi di garanzia e, nel nostro caso, carabinieri, valga la regola «X conta come Y in C», per cui l’oggetto sociale poggia su una res, cioè su un oggetto fisico («il tale individuo vale come carabiniere nell’Italia del 2010») e, soprattutto, non condivide con Searle l’idea che a monte di questa legge si debba porre un’intenzionalità collettiva in grado di fare da ponte fra oggetti fisici e oggetti sociali attribuendo funzioni. Ferraris, che, mi pare giustamente, ravvede nell’idea di intenzionalità collettiva la riproposizione dello spirito oggettivo hegeliano, vede all’origine della costruzione di oggetti sociali la scrittura, intesa innanzitutto come iscrizione. Una delle tesi fondamentali della documentalità è in effetti che sia la lettera a generare lo spirito, e non viceversa. Il concetto che fa da tramite concettuale fra lettera e spirito, un concetto fondamentale nell’argomentazione di Ferraris, è quello del «lasciare traccia». Se dal punto di vista del realismo debole di Searle un muro (oggetto fisico) vale come confine fra proprietà (oggetti sociali), Ferraris fa notare che non esiste alcun oggetto fisico per spiegare un oggetto sociale come il debito, mentre sia il debito che la proprietà si possono spiegare ricorrendo al concetto di traccia, e cioè alla presenza di un’assenza. Nel marcare il territorio l’animale lascia una traccia, che fa da tramite presente (il dato olfattivo) per qualcosa di assente (l’animale che ha marcato il territorio). La traccia «costituisce una struttura sopraordinata tanto al muro quanto al debito» (ivi: 172). Il lasciare traccia ha dunque sia un lato che potremmo chiamare attivo (l’animale che marca il territorio, il poeta che scrive l’Orlando Furioso, il signore che fa testamento), sia passivo, in quel tipo di registrazione particolare che è la memoria. La conseguenza teorica più significativa, o, si potrebbe dire, esemplarmente significativa, della sostituzione dell’oggetto fisico con la traccia risulta evidente nella discussione del rapporto fra denaro e valore, visto (da Ferraris stesso) in stretta analogia col rapporto fra comunicazione (o contenuto comunicativo) e scrittura. Nella versione di Searle il denaro, oggetto sociale per eccellenza, trova un ancoraggio fisico nel valore oggettivo dell’oro, secondo la formula X (oro) conta come Y (denaro) in C. Nella versione di Ferraris l’ancoraggio al materiale prezioso viene meno, o meglio viene meno l’illusione che il denaro tragga il proprio valore da un valore oggettivo che garantirebbe la sua spendibilità (la riserva aurea nelle banche diventa irrilevante, nota Ferraris, quando, nel 1971, Richard Nixon abolì la convertibilità totale del dollaro; p. 180). Il valore del denaro, nella teoria della documentalità, non dipende da altro che dall’essere ritenuto un valore in un contesto sociale dato, e dall’essere registrato come tale. La formula di Searle viene conseguentemente mutata in X (carta) conta come Y (denaro) in C. In un altro capitolo la questione viene ulteriormente chiarita: la tesi secondo cui il denaro deriverebbe dalla necessità di semplificare le operazioni del baratto secondo Ferraris è un fraintendimento analogo a quello per cui il denaro avrebbe il suo ancoraggio nel valore dell’oro. Chi baratta oggetti non ha bisogno di denaro perché, per l’appunto, ha a disposizione ciò che va scambiato. Il denaro ha senso laddove l’oggetto da scambiare è assente: «Tizio riceve da Caio tre sacchi di grano, e promette a Caio che gli darà domani una mucca, che in questo momento non ha con sé; questa formulazione viene fissata per iscritto (e questo avviene già nel tardo neolitico): “pagherò all’ordine”. Si tratta di un protoassegno bancario, che a sua volta sta all’origine della banconota. Di qui una conseguenza a cui si presta poca attenzione: la successione monete di metallo —> monete cartacee non è più fittizia di quanto non lo sia la successione oro —> denaro, o parola —> scrittura. Come si fraintende la genesi della scrittura pensando che si tratti di un ritrovato impostosi a un certo punto per ragioni di telecomunicazione e non di registrazione, così si fraintende la genesi del denaro pensando che sia un surrogato del valore invece che la creazione del valore. In effetti, siamo posti di fronte a una successione che comporta sin dall’inizio una scrittura non garantita da alcun valore-oro: promessa (atto iscritto nella mente dei contraenti) —> pagherò —> assegno —> banconota (forme di iscrizione)» (ivi: 228). Se l’oro non è all’origine del valore del denaro, che invece trae il suo valore da un performativo registrato nella mente di almeno due persone (la promessa), allora anche il rapporto comunicazione/scrittura può essere invertito: non abbiamo qualcosa da scrivere perché abbiamo qualcosa da dire, ma abbiamo qualcosa da dire perché scriviamo, cioè lasciamo tracce nella mente altrui. Così come l’oro non costituisce il valore del denaro, allo stesso modo non ci sono contenuti comunicativi che precedano, come una riserva aurea, le registrazioni con cui riempiamo la nostra mente e quella degli altri. Ma, si potrebbe obiettare, ha nessuna importanza, nell’esempio citato, che Tizio effettivamente abbia una mucca da scambiare con i tre sacchi di grano che riceve oggi da Caio? La mucca (assente oggi) non deve poter essere creduta presente da qualche parte perché Caio accetti il pezzo di carta che registra la promessa? Cosa succederebbe a Tizio se la mucca di cui scrive non esistesse affatto? In altre parole, la macchina della creazione di valore può effettivamente funzionare senza la credenza (fondata o meno) che da qualche parte la cosa che vogliamo (la mucca, l’oro, il significato) effettivamente ci sia? Anche in questo caso mi pare si possa rimandare a Hobbes, il quale, nel capitolo del Leviatano dedicato alla natura del potere, seguiva un percorso analogo nei confronti degli oggetti sociali e del loro presunto ancoraggio alla natura. Lì Hobbes partiva da una distinzione neutra, quella fra poteri naturali (capacità del corpo o della mente di cui si può essere più o meno dotati, come la forza, l’intelligenza, la bellezza, etc.) e poteri strumentali (acquisiti grazie ai poteri naturali o grazie alla sorte: ricchezza, reputazione, amici, etc.). L’iniziale ancoraggio dei poteri strumentali a quelli naturali, però, viene meno (come la riserva aurea del denaro nel caso esemplificato da Ferraris), proprio perché un potere strumentale fra gli altri, e cioè la reputazione (o la fama) è il motore determinante del mondo sociale. Poiché «la fama di potere è essa stessa potere», l’esistenza o meno del potere naturale cui ingenuamente si vorrebbe far risalire il successo, l’onore, e in generale il valore di una persona è invece irrilevante, giacché il valore di una persona coincide col suo prezzo, che non è «un valore assoluto, ma dipendente dal bisogno e dalla stima di altri» (Hobbes 1651; 2008: 70). Per questo le attività fondamentali della vita sociale sono onorare e disonorare, e la dignità di una persona non consiste in qualcosa di sostanzialmente diverso dal suo prezzo [2] ma nel fatto che il suo prezzo riceva una sanzione pubblica, cioè un valore attribuito dallo Stato (con Ferraris si potrebbe dire che la dignità consiste nel fatto che riti e documenti, cioè registrazioni, facciano di un individuo una persona pubblica: un cardinale piuttosto che un maresciallo, un professore piuttosto che un dottore). Nel caso di Hobbes una teoria delle passioni, e una particolare reinterpretazione della teoria aristotelica della felicità, precedono e fondano la teoria del potere. Nel capitolo 10 del Leviatano il potere di un uomo è definito come l’insieme dei mezzi per ottenere beni futuri, ma questa definizione rimanda al concetto di felicità, affrontato nel cap. 6: «Il continuo successo nell’ottenere quelle cose che di volta in volta si desiderano, cioè la continua riuscita, è ciò che si chiama felicità» (ivi 51). Il desiderio di potere, dunque, si radica nel desiderio di riuscire ad avere ciò che di volta in volta si desidera, e poiché la vita è movimento e non esiste un fine ultimo in cui acquietarsi, la felicità non consiste nel raggiungimento di un fine ultimo, ma piuttosto nel continuo conseguimento di beni. Quali beni? Da un lato beni materiali (tornando all’esempio di Ferraris: acquisire la mucca di Tizio, i sacchi di grano di Caio), dall’altro beni sociali: onore, riconoscimento, dignità, etc. Il desiderio di potere, dunque, da un lato è hobbesianamente subordinato come un mezzo al desiderio di felicità, ma, dall’altro, è esso stesso ingrediente fondamentale del desiderio di felicità. Non desidero diventare cardinale solo perché questo mi permetterà di ottenere beni futuri, ma perché nel diventare cardinale realizzo un desiderio che mi rende felice: essere riconosciuto come potente, essere qualcuno, prevalere sugli altri, il che significa esistere nella mente degli altri come qualcuno che è a loro superiore, e, con ciò, lasciare una traccia indelebile nella loro memoria (e, possibilmente, nella memoria futura). Se ora torniamo alla teoria degli oggetti sociali elaborata da Ferraris, possiamo chiederci quale antropologia vi sia all’opera. Nell’esempio che abbiamo appena commentato si è visto che l’oggetto fisico che dovrebbe, nel caso di Searle, dare fondamento esterno al valore (l’oro che garantisce il dollaro) viene sostituito dal concetto di traccia. Nello scambio fra Tizio e Caio la mucca è assente e non pare rilevante che ci sia. Ferraris adotta l’esempio della marcatura del territorio per spiegare cosa intenda per traccia. Nel marcare il territorio l’animale afferma se stesso, asserisce il suo controllo sul mondo che lo circonda e in particolare sugli altri animali. Se il rapporto formale fra traccia, archiscrittura e scrittura è centrale nella documentalità, meno esplicitamente centrale mi pare il tema del controllo, che potremmo vedere sia come effetto del lasciare traccia, sia come suo movente. A ben guardare nell’analisi di Ferraris il controllo svolge un ruolo fondamentale in quasi ogni aspetto che riguarda la scrittura (e la scrittura, a sua volta, finisce per riguardare tutto ciò che è sociale), pur non essendo tematizzato in quanto tale. Vorrei ipotizzare che il nucleo antropologico della teoria di Ferraris sia il concetto di controllo. Consideriamo un primo esempio. Ferraris inizialmente afferma che la registrazione è una condizione di possibilità della comunicazione: senza registrazione la comunicazione non avrebbe valore sociale. Da condizione necessaria, però, molto rapidamente la registrazione si fa condizione sufficiente, dal momento che, senza la registrazione in quella tabula scritta che secondo Ferraris è la memoria, ciò che verrebbe a mancare sarebbe avere qualcosa da dire: il circolo si chiude con la tesi che avere qualcosa da dire è frutto di scrittura, perché è la scrittura a produrre lo spirito e non viceversa (Ferraris 2009: cap. xxx). Senza registrazione, inoltre, non verrebbe a mancare solo ciò che si vuole comunicare, ma qualcosa di più importante ancora: l’essere qualcuno. Il problema qui non è tanto non avere pensieri, quanto non avere controllo su di essi: la registrazione permette che non sfuggano dalla nostra mente, e al tempo stesso permette a noi di essere le persone che hanno quei pensieri, sia ai nostri occhi che, e questo è fondamentale, a quelli degli altri. La perdita della memoria, la corruzione delle registrazioni, è perdita del controllo di sé: non a caso Ferraris evoca la malattia di Alzheimer, e significativamente, proprio in connessione con la perdita di identità causata dalla perdita di memoria, cita il Cinque Maggio di Manzoni, in cui la memoria perduta è sia quella del singolo, sia, molto significativamente, quella che il mondo poteva avere di lui: «basta considerare che “orba di tanto spiro” è la spoglia di Napoleone nel Cinque Maggio anzitutto perché è “immemore”» (Ivi: 210). Ma chi è immemore è anche sulla buona strada per essere dimenticato: perde al tempo stesso i pensieri da dire, i pensieri da ricevere, gli oggetti da possedere, un mondo che tenga traccia di lui e il controllo su quel mondo: «La potenza della registrazione sta proprio nel differire, nel rinviare a dopo, nel fissare e nel posporre, trasformando la volatilità delle parole e dei processi nella solidità e permanenza degli oggetti sociali. Solo con potenti strumenti di registrazione, e dunque di differimento, è possibile controllare un mondo globalizzato, e non è un caso che proprio la scrittura (il mondo del web), molto più che la parola (il mondo della radio, della televisione e del telefono), abbia contribuito al sorgere della globalizzazione» (Ivi: 209). Detto altrimenti: la registrazione e la scrittura mi permettono di essere là dove non posso fisicamente essere, sia nello spazio che nel tempo. Perché ci voglia essere, e quindi ad esempio perché debba voler controllare un mondo globalizzato, però, non è chiaro. Veniamo a un secondo esempio: il tema del controllo si sviluppa nell’analisi dell’educazione e della natura delle convinzioni morali, che, argomenta Ferraris, sono il risultato di imitazione a sua volta trasmessa attraverso l’iscrizione. Se la memoria individuale è prima di tutto registrazione, e cioè recipiente passivo di scritture, l’iscrizione come atto, a sua volta, ha una esplicita funzione di controllo: «L’iscrizione non è (dunque) una semplice registrazione; è sempre potenzialmente rivolta verso una forma di leggibilità pubblica» (Ivi: 192). Se l’animale che marca il territorio lascia una traccia olfattiva la cui funzione fondamentale è quella di controllare il comportamento degli altri animali, analogamente, mi pare, l’iscrizione è qui scrittura, vera propria incisione, e cioè controllo, dei comportamenti (grazie alla mimesis) e delle menti: «Registrare il dare e l’avere, trasformare parole volatili in scritti permanenti, fissare eventi rendendoli oggetti (contratti, titoli), e poi, sul piano dell’imitazione sociale, codificare comportamenti, regole di eleganza e di stile, gerarchie di valori e aspirazioni, marcare visivamente condizioni e status — tutto questo è tradizionalmente prerogativa delle iscrizioni» (ivi: 219). In effetti, lo è tanto tradizionalmente che Platone, il quale, come nota Ferraris, usa il concetto di mimesis per quasi tutto, in un passo importantissimo della Repubblica, che non ho visto citato da Ferraris, associa direttamente l’educazione dei guerrieri (in gran parte basata sulla mimesis di certi modelli), ad un’opera di iscrizione sull’ anima: «Vedi, i nostri sforzi non avevano altro scopo se non che essi [i guerrieri], grazie alla persuasione, ricevessero nel miglior modo le leggi, come una tintura, così che le loro opinioni circa le cose temibili e le altre diventasse indelebile, grazie sia alla natura, sia all’allevamento appropriato, e che la loro tintura non venisse lavata via da questi saponi così efficaci nel lavaggio — il piacere, che a far questo è più forte di qualsiasi detersivo o lisciva, e il dolore e la paura e il desiderio, più efficace di qualsiasi sapone» (Rep. IV, 430a). Nel caso della Repubblica si prevede che alcuni scrivano (i proto governanti) e altri ricevano scritture (i guerrieri). Nel caso di Ferraris non è chiaro chi e perché scriva. Nel caso di Hobbes, che ho citato prima, la vera religione è quel sistema di credenze garantite dall’istituzione, ma, in modo esplicito in altri passi del Leviatano, a loro volta le istituzioni non stanno in piedi se alle parole non si affianca il potere della spada. Ferraris, in effetti, evoca Hobbes negando però proprio la solidità e tridimensionalità del potere, e, implicitamente, il potere della spada: «Il corpo del Leviatano, in breve, non è composto da tanti corpi, come nel frontespizio del libro di Hobbes, bensì da iscrizioni e documenti. Ma le iscrizioni fuori, sulla carta, non bastano. Sono necessarie le iscrizioni interne, ossia le nostre menti che si rapportano le une con le altre attraverso l’imitazione. Il potere delle convenzioni, dunque, è di fatto il potere delle iscrizioni, di leggi scritte e non scritte, o più precisamente, scritte da un’altra parte, nella testa delle persone» (Ferraris 2009: 220). Nella teoria di Ferraris, però, le parole, proprio perché, con la scrittura, o attraverso i riti e le codificazioni dell’archiscrittura, si fanno, ben più che metaforicamente “incisive”, rendono il potere della spada quasi superfluo. Così il mondo sociale, che un lettore ingenuo potrebbe immaginare tridimensionale, si appiattisce in un cumulo di fogli di carta e, anche cose come la genesi dell’Europa unita nascono, nella sua interpretazione, quasi magicamente dalle scartoffie. Mentre leggevo Documentalità di Ferraris, mi è capitato di andare al cinema a vedere un film la cui sceneggiatura sembrava scritta per esemplificare le sue tesi. Il film è “Sopra le nuvole”, l’attore principale George Clooney. Bingham, il personaggio interpretato da Clooney, ha un fine, nella vita, ed è quello di raggiungere 10 milioni di miglia di volo che verranno registrate in una tessera speciale, creata apposta per lui. Vedere il mondo dall’alto come una mappa che si raccoglie e si controlla nello sguardo del viaggiatore dà a Bingham una soddisfazione infinitamente superiore a quella che può ottenere avendo a che fare con la tridimensionalità. D’altro canto il suo lavoro è quello di tagliatore di teste: i datori di lavoro che non hanno il coraggio di licenziare i loro impiegati lo fanno per interposta persona. Bingham accumula miglia di volo, arriva nei luoghi di lavoro designati, lascia a chi sta licenziando un inutile malloppo di carte firmate, e, prima che scoppino gli effetti della disperazione altrui riprende l’aereo e sparisce dalla loro vista. Benché la ricchezza, la sua mancanza, e la distruzione delle vite altrui per via dell’una e dell’altra siano centrali nel film, ciò che è tematizzato non è la ricchezza o la povertà tangibili, ma piuttosto il potere della registrazione. Come nota Anthony Lane nella sua recensione sul New Yorker (Lane 2009), quando finalmente Clooney in un aeroporto incontra la donna che fa per lui, i due si conquistano a vicenda svuotando il contenuto del loro portafogli in un parossismo erotico di carte di credito, carte frequent flyer, chiavi magnetiche, tessere d’iscrizione a ogni sorta di club. Anche in quel film il mondo sociale è determinato e nutrito da scritture, e dall’impulso fondamentale a lasciare traccia. Quando la faccenda sentimentale si complica il film in un certo senso s’indebolisce: Clooney è perfetto quando sfodera carte di credito, o scambia messaggi erotici col suo blackberry. La storia si fa melensa e la faccia di Clooney poco credibile quando una cosa come l’amore sembra prendere il sopravvento sulla registrazione e il controllo. Tornando alla teoria di Ferraris, viene da chiedersi se l’unica alternativa al potere magico della scrittura debba necessariamente trovarsi nel concetto di nuda vita, che giustamente Ferraris trova confutabile. Lo stesso lettore ingenuo potrebbe insistere sul fatto che gli eserciti, le cosiddette forze sociali, le potenze economiche, sebbene anche fatte di scrittura e generate da documenti, in buona parte derivino il loro potere da altro, da qualcosa che si incide nelle menti perché può incidersi nei corpi, non solo incidersi nei corpi (come i tatuaggi di cui parla Ferraris), ma disporne, deciderne, imporre nuove mappe grazie ad essi. I regolamenti si fanno e si disfano, ma non si scrivono da soli (non a caso la scrittura di regolamenti è perlopiù preceduta da incontri, trattative, conciliaboli in cui ciò che si dice non solo non viene scritto, ma si fa di tutto perché non venga registrato). Il mondo può apparire semplice e controllabile come una mappa se lo si guarda dall’alto, ma, dall’alto, si corre il rischio di vederlo come pura ripetitività. Se da un lato questo offre un indubbio vantaggio dal punto di vista del controllo, dall’altro rimane il senso che qualcosa possa sfuggire. Il grande sforzo di Ferraris, e uno dei grandi meriti della sua teoria, è quello di evitare l’appello a ogni forma di dualismo: il dualismo valore/iscrizione nel denaro, il dualismo mente/corpo, il dualismo significato/scrittura. Il rischio è che il dualismo non sia scongiurato, bensì conservato invertendo il termine cui dare priorità, e che, nel prevalere della reiterazione, della lettera, e della forma sul contenuto, il contenuto si renda solo magicamente disponibile, o, a ben guardare, evanescente. È un rischio di cui Ferraris appare consapevole: «Attraverso l’iterazione (vale a dire mediante la tecnica in generale) si ottiene altro, cioè il significato. Ma il significato, proprio a causa di questa genesi, è sempre pronto a regredire, come quando da bambini ripetiamo una parola che, alla lunga, perde senso» (Ferraris 2009: 236). Note [1] Per un’argomentazione in questo senso, cfr. Williams 2007: 79-85. [2] Non a caso fondare la distinzione fra prezzo e dignità diventerà un problema cruciale per la filosofia morale dopo Hobbes. Per un esempio classico, cfr. Kant, 1797/98; 1997: 103. Opere citate Ferraris. M., 2009, Documentalità. Perché è necessario lasciare tracce, Roma-Bari, Laterza Hobbes, T., 1651, Leviatano, a cura di Arrigo Pacchi, Roma-Bari, Laterza, 2008 Kant, I., 1797/98, Fondazione della Metafisica dei costumi, trad. F. Gonnelli, Roma-Bari, Laterza, 1997 Lane, A., 2009, Nowhere Man: Up in the Air, “New Yorker”, December 7 Strawson, P., 1974, Freedom and Resentment, in Freedom and Resentment and other Essays, London, Methuen Williams, B., 1993, Vergogna e Necessità, Bologna, Il Mulino, 2007 |
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