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Con la teoria della documentalità, Ferraris sembra provare a rispondere, in modo originale, ad una questione che Derrida stesso aveva posto all’inizio del suo percorso e cioè in Introduzione a L’origine della geometria di Husserl. Derrida inquadra il problema husserliano della genesi degli oggetti ideali della scienza in una prospettiva più ampia, quella della genesi dello “Spirito oggettivo”, del quale le verità della scienza sarebbero solo un’articolazione e non la condizione: “In che modo a partire dalle concatenazioni di senso e dalle evidenze di un ego monadico da cui non possiamo non partire, di diritto come di fatto, uno spirito oggettivo in generale può costituirsi, come luogo della verità, della tradizione, della co-responsabilità, ecc.?”(Derrida 1962: p. 114). È in questa prospettiva che Derrida elabora la nozione di archi-scrittura, ed è in questa prospettiva, che Ferraris la riprende, per rilevarne struttura ed efficacia in un campo di cui Derrida si era limitato ad indicare le coordinate più generali: la scrittura generale intesa quale insieme di tutti i possibili sistemi di iscrizione. Da questo punto di vista, il lavoro di Ferraris sembra riprendere il progetto di una“Grammatologia quale scienza positiva” appena abbozzato da Derrida più di quaranta anni or sono (De la Gramamtologie). In questa prospettiva, vorrei dedicare qualche osservazione alla critica che Ferraris muove a quella che giustamente considera una tesi centrale nel testo Derridiano: “il n’y a pas de hors-texte” (De la Grammatologie). Una tesi che secondo me deve essere considerata quale conseguenza irriducibile dell’archi-scirttura. A mio parere, per Derrida l’archi-scrittura non serve solo a spiegare la genesi degli oggetti ideali in Husserl ma anche a mostrare il limite irriducibile in cui incappa Husserl nella sua ricostruzione genetica. Per farla breve: Husserl si limita a cogliere la necessità dell’iscrizione materiale di una lingua in una scrittura – la necessità dell’iscrizione in una traccia iterabile – perché non vede che l’archi-scrittura funziona ben prima della genesi degli oggetti ideali prodotti da una coscienza intenzionale costituita. Husserl non vede che l’archi-scrittura funziona quale condizione di costituzione della coscienza, addirittura quale condizione della vita del vivente al di qua del suo costituirsi in coscienza (lungo questa strada a ritroso, Derrida preferisce accompagnarsi ad Hegel, via Hippolyte – nell’Introduzione il riferimento è esplicito: (Derrida 1962: 139n). è per questo che Husserl vede nella possibilità della scrittura una necessità ma anche la più grave minaccia per la verità, per difendersi dalla quale sarà costretto ad affidare la genesi degli oggetti ideali ad un ideale teleologico (se non addirittura a Dio). Se è vero, come dice Ferraris, che Husserl riduce l’esperienza a conoscenza, non credo che questo valga per Derrida, non solo perché gli muove la stessa obiezione (e prima di lui Lévinas), ma sopratutto perché l’archi-scrittura per Derrida è una “struttura universale dell’esperienza” che, una volta assunta come tale, destabilizza radicalmente le pretese di certezza di tutti i sistemi di conoscenza che pensano di poter sovrapporre i propri schemi, più o meno astratti, all’esperienza. Affermare che l’archi-scrittura sia una struttura universale dell’esperienza non comporta una rinnovata ipostasi trascendentale: si tratta di rilevare, a partire dalla datità dell’esperienza, le condizioni di possibilità minime e irriducibili affinché vi sia esperienza (quindi nemmeno si rischia l’empirismo): la possibilità di ritenere e iterare una traccia che rinvia all’esperienza vissuta senza presentarla come tale. Solo così potremo riferirci all’esperienza in un altro momento dell’esperienza stessa. Di questa struttura, la conoscenza è un’articolazione di gran lunga ulteriore – la sfera dello “Spirito oggettivo” – in quanto la genesi di questa struttura non risponde ad esigenze di conoscenza ma a quella strettissima della sopravvivenza del vivente. A questo punto la locuzione “il n’y a pas de hors-texte” dovrebbe essere chiara: se l’archi-scrittura è la condizione dell’esperienza, se l’esperienza è funzione dell’iterabilità della traccia, ciò significa che l’esperienza si costituisce quale tramatura di tracce, e cioè come testo. Il testo dell’esperienza così come i testi elaborati attraverso altri sistemi di iscrizione sono articolazioni differenti dell’archi-scrittura: rispondono alla stessa condizione ma in condizioni differenti con effetti specifici differenti dei quali è necessario rendere conto: una cosa è “il testo generale”, altra cosa sono i diversi sistemi di iscrizione. In Limited Inc., Derrida, su questo punto così controverso, è assolutamente chiaro: “Volevo ricordare che il concetto di testo che propongo non si limita né alla grafia, né al libro, e neppure al discorso, ancor meno alla sfera semantica, rappresentativa, simbolica, ideale o ideologica. Ciò che chiamo ‘testo’ implica tutte le strutture cosiddette ‘reali’, ‘economiche’, ‘storiche’, socio-istituzionali, in breve tutti i referenti possibili. Altro modo di ricordare una volta di più che non c’è fuori testo (Il n’y a pas de hors-texte). Cosa che non vuol dire che tutti i referenti sono sospesi, negati o rinchiusi dentro un libro, come si finge o come si ha spesso l’ingenuità di credere e di accusarmi. Ma piuttosto che ogni referente, ogni realtà ha la struttura di una traccia differenziale, e che ci si può rapportare a questo reale solo in un’esperienza interpretativa. Questa dà o prende senso solo in un movimento di rinvio differenziale [différantiel]. That’s all” (Derrida 1990: 273). Per essere ancora più chiari: al livello più elementare dell’esperienza – l’appercezione dell’ambiente – il testo, elaborato attraverso l’archi-scrittura, si costituisce per tutti allo stesso modo (si tratterebbe di una specie di “universalità soggettiva” per usare una terminologia kantiana). Per tutti la ciabatta è qualcosa e non nulla. Le cose si complicano – i testi si ingarbugliano – ad un livello ulteriore e differente: il livello degli “oggetti sociali” per dirla con Ferraris, o dello “Spirito oggettivo” per dirla con Hegel [il riferimento a Hegel ci permetterebbe di guardare allo “Spirito oggettivo” in una prospettiva essenziale per Derrida ma indubbiamente complicata: se l’istituzione del matrimonio inaugura il movimento dello “Spirito oggettivo” in nome della repressione della pulsione sessuale animale, allora possiamo quanto meno ipotizzare che nella tramatura di testi di cui si compone lo “Spirito oggettivo” intervengano anche istanze idiomatiche spesso oscure]. Messo tra parentesi il riferimento abissale a Hegel e alla psicanalisi, dovrebbe comunque risultare chiaro che con la famigerata locuzione “il n’y a pas de hors-texte” Derrida non ha inteso sostenere che “non c’è nulla al di fuori del testo”, che tutto è costruzione culturale, mediato da testi scritti, dalla tradizione e dall’interpretazione di testi nel senso corrente del termine. Il “testualismo forte” di cui parla Ferraris può essere associato agli effetti di una certa deriva ermeneutica, al pensiero debole, alla teoria della letteratura di area anglo-sassone, al post-moderno... non a Derrida, anche se è indubbio che è anche attraverso una certa interpretazione di Derrida che molte di queste posizioni si sono venute affermando. D’altra parte, ho la sensazione che Ferraris se la prenda, giustamente, con questa vulgata derridiana piuttosto che con Derrida. Almeno così mi pare, tenuto conto del fatto che, nel paragrafo dedicato alla contestazione del “testualismo forte”, Ferraris cita Rorty e Lyotard, non Derrida. Il motivo dell’obiezione di Ferraris è forse un altro e più grave: posto che “il n’y a pas de hors-texte” significa che l’archi-scrittura, quale struttura universale dell’esperienza, produce i suoi effetti su tutto il campo dell’esperienza, determinando quest’ultima in tutte le sue articolazioni e stratificazioni, sia pure in modo specifico e differenziato, allora si potrebbe accusare Derrida di aver costituito un’altra ipostasi trascendentale, un altro schema da sovrapporre all’esperienza e alla realtà. È un problema che non può essere eluso a cuor leggero. Io credo che in nessun caso l’archi-scrittura corra questo rischio, nemmeno se ci atteniamo alle conseguenze che ne deduce Derrida. E tuttavia mi auguro che il dibattito in corso su Rescogitans e altrove possa toccare questo punto e aiutarmi a precisare la mia posizione discutendo possibili obiezioni. Per me sostenere che per un certo tipo di enti naturali il rapporto con la realtà sia mediato da una struttura universale – l’archi-scrittura – non significa necessariamente che questa struttura sia uno schema tale da costituire la realtà e nemmeno significa che la realtà, così mediata, resti inaccessibile, al di là del fenomeno effetto dell’archi-scrittura. L’archi-scrittura non implica una tesi sul senso dell’essere, casomai descrive le condizioni per le quali un particolare ente naturale ha potuto porsi un interrogativo così astratto quale quello sul senso dell’essere. La tesi dell’archi-scrittura, secondo me, dice solo che per un ente naturale che deve necessariamente rapportarsi all’ambiente per sopravvivere (nutrirsi, ripararsi, riprodursi, secondo la definizione minima della vita animale nella Filosofia della Natura di Hegel), è necessaria questa struttura, “è necessario lasciare tracce”. Da questo punto di vista la tesi “il n’y pas de hors-texte” (ammesso che sia una tesi) non solo non intacca minimamente il progetto grammatologico di Ferraris ma la rinforza e proprio nella direzione indicata da Ferraris: permette infatti di articolare l’emergenza degli oggetti sociali ad una teoria dell’esperienza [in termini hegeliani: permette di radicare l’emergenza dello “Spirito oggetitvo” allo “Spirito soggettivo”]. That’s all, direbbe ancora una volta Derrida, con un pizzico di ironia. Perché di qui comincia tutta la nostra avventura, di traccia in traccia, strato per strato, dall’individuo allo Spirito Oggettivo. Riferimenti bibliografici: Derrida J., (1962), Introduction à E. Husserl, L’origine de la géométrie, Paris, Puf; trad. it. a c. di C. Di Martino, Introduzione a L’origine della geometria di Husserl, Milano, Jaca Book. ––– (1990), Limited Inc., Paris, Galilée, trad. it. a c. di N. Perullo, Milano, Raffaello Cortina, 1997. |
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