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Altrove (Kobau 2008) ho esaminato un’opera di Robert Morris, Document (1963), ottenuta dal calco di una sua opera precedente cui è affiancato un testo che recita: “Attestazione di cancellazione estetica / Il sottoscritto ROBERT MORRIS, in qualità di autore dell’artefatto metallico intitolato LITANIE, descritto nell’annesso reperto A, elimina dal suddetto artefatto ogni qualità estetica e ogni contenuto e dichiara che a partire dalla presente data il suddetto artefatto non possiede alcuna simile qualità e alcun contenuto”. Abbiamo un vero documento (un atto notarile, con tanto di date, firme e timbri) come parte dell’opera, sul cui valore estetico non occorre pronunciarsi — ma si osservi che si tratta sempre di una cosa, che può sempre sollecitare giudizi estetici. Diversamente da altri casi di esperimento artistico, dunque, non ci si trova dinanzi a una cosa “qualsiasi” elevata nel cielo dell’arte, come si è detto avverrebbe per i readymade di Duchamp, né di “smaterializzazione” dell’opera, come si è detto avverrebbe nelle performance. Importa, invece, rilevare il fallimento del tentativo di cancellare “ogni qualità estetica” da ciò che Morris ha esibito come opera. L’unico modo per ottenere una simile cancellazione lo si sarebbe potuto cercare nella distruzione dell’artefatto — ma, probabilmente, tale evento lo si sarebbe detto una performance, uno spettacolo in qualche modo godibile. Sembra quasi che l’autore, nonostante le intenzioni, non potesse non produrre un’opera d’arte, poi etichettata e collocata nel MoMA. Che cosa testimonia questo strano oggetto? Lo si può prendere come un protocollo sperimentale: il risultato del tentativo di sdoppiare l’opera in un oggetto godibile ed eliminabile (che però resiste testardamente) e in un’opera d’arte “pura”. E l’idea di tale sdoppiamento sta a ben vedere alla base di due diverse intuizioni, che possono separarsi ed entrare in conflitto, proprie del nostro senso comune, come dell’estetica e della filosofia dell’arte. Voglio dire, cioè, dell’estetica intesa come scienza del bello e dell’estetica intesa come metafisica dell’arte — che confliggono già nella terza “Critica”, dove Kant afferma sia la necessaria soggettività del giudizio estetico, sia la legittimità della sua pretesa all’universalità. Che fare, dunque, di queste due differenti intuizioni? Conciliarle, eliminarne una a spese dell’altra, lasciarle vivere mantenendole separate? Intanto, si può attaccare il rompicapo affermando che si danno determinate condizioni (potremmo chiamarle condizioni sociali) che ci determinano a trattare alcune cose come opere d’arte, investendole quindi di un peculiare valore estetico. La prima obiezione è forse già pronta: si tratterebbe di una ripresa della teoria istituzionale dell’arte avanzata da Dickie (1984): fallimentare e, comunque, ormai logora (D’Angelo 2008: 15-19). Rispondo, allora, che sia pure, questa, una ripresa della teoria di Dickie — ma riveduta. Invece di lasciarla cadere perché obsoleta, vorrei cioè riprenderla nella consapevolezza dei suoi difetti, che sono molti, alcuni dei quali ha cercato di rispondere lo stesso Dickie. La proposta di Dickie sembra, intanto, poco chiara rispetto al carattere sociale dell’oggetto artistico. Dickie riteneva di avere risolto il problema invocando il carattere “informale” delle istituzioni del “mondo dell’arte”, ma questo non esime dal rispondere meglio alle domande circa la natura sociale dell’opera, perché proprio qui starebbe la differenza tra le opere d’arte e gli artefatti dotati di proprietà estetiche. Ritengo, però, che su questo punto la teoria istituzionale dell’arte possa venire integrata con ottimi risultati dalla teoria della documentalità offerta da Ferraris (2009). Dickie non ha messo a fuoco la natura dell’opera in quanto oggetto sociale, ma assumendo la prospettiva di Ferraris anche l’opera d’arte risulterebbe definita come l’iscrizione fisica di un peculiare atto sociale, quello intercorso tra membri delle istituzioni artistiche. Infine, la teoria di Dickie sembra cieca rispetto a una circostanza fondamentale. Dickie, cioè (ma in eccellente compagnia), mi pare confondere tra loro due tipi di giudizio estetico: quello privato e quello pubblico. Un conto, infatti, è confrontarmi privatamente (“soggettivamente”, direbbe Kant) con un oggetto (che può essere anche un oggetto naturale) e giudicarlo sotto il profilo estetico. Checché ne pensi chi teorizza l’esperienza estetica come fonte dell’artisticità, un tale giudizio potrà bene essere privo di conseguenze. Altro è però giudicare qualcosa in quanto ingrediente di quell’atto sociale che è l’offerta da parte di un artista (un soggetto autorizzato) di un oggetto a un altro soggetto autorizzato a giudicarlo, entro le regole del mondo dell’arte. Questo atto, che proporrei di chiamare transazione artistica, darà luogo a negoziazioni circa il valore estetico dell’oggetto, avrà conseguenze e lascerà tracce. E si noti che queste tracce potrebbero testimoniare un atto mal riuscito (“no, la tua opera non mi piace”), o altrimenti problematico, magari (come nel caso di molte opere sperimentali) per l’intenzione dell’artista (“ti piace questa cosa che ho voluto fare così strana, così brutta?”). Ma già il primo atto di offerta basterà a lasciare una traccia adeguata, che vincolerà e orienterà le transazioni a venire circa l’oggetto, che da allora in poi esisterà come opera d’arte. Opere citate P. D’Angelo, La definizione dell’arte, in Id., a c. di, Introduzione all’estetica analitica, Roma - Bari, Laterza, 2008: 3-36; G. Dickie, The Art Circle: A Theory of Art, New York, Haven, 1984; P. Kobau, Parerga?, in “Rivista di estetica”, n.s., n. 40, 1/2009: 21-39; M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma - Bari, Laterza, 2009. |
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