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Arthur Danto. Un filosofo pop
di Tiziana Andina
 
 
 
Guggenheim Museum, New York 2010

Sono ritornata al Guggenheim quest’inverno, dopo che lo avevo già visitato lo scorso anno, in primavera. A dire la verità, ci sono tornata soprattutto per rivedere l’edificio di Lloyd Wright: la sua bellezza disadorna e asciutta che emerge incastonata tra i palazzi antichi della Quinta Strada è qualcosa di assolutamente straordinario. Così come è incantevole, in tutte le stagioni, anche le più malinconiche, la vista di Central Park e dei suoi grattacieli più antichi dall’interno dell’edificio.
All’ingresso, nel grande spazio circolare invaso dalla luce nonostante fossimo nel bel mezzo di un freddissimo febbraio newyorkese, due artisti, all’apparenza potevano essere due visitatori qualunque, stavano mettendo in opera la solita performance: si trattava di due persone che si muovevano mute, vestite con jeans e magliette grigio antracite, che mimavano un incontro d’amore, un incontro di corpi e di anime.
Esibivano quella mimica di comunicazione gestuale e corporea in maniera infinitamente ripetitiva, e in quella ripetizione raccontavano il rincorrersi di corpi che si sfiorano e poi si prendono, di anime che si avvicinano, si toccano e, alla fine, si guardano cercando di non smarrirsi, di non dimenticarsi. Raccontavano una storia fatta di movimenti lenti, sempre la stessa, all’infinito, quasi trasponessero in gesti l’eterno ritorno dell’identico perché, in fondo, ogni incontro d’amore riproduce la medesima essenza, pure attraverso infinite variazioni particolari.
Dopo aver vinto la prima tentazione a passare oltre, mi misi a osservare il ripetersi di quei gesti, pensando a come in quei movimenti fosse incorporato il senso delle nostre relazioni più profonde. Era tutto lì: espresso da quei corpi che non usavano parole per significare qualcosa. E poi c’era dell’altro: ciò che più contava nella relazione che stavo tessendo con l’opera era il fatto che, in quel preciso momento, potevo le gare quei movimenti alle parole che preferivo, alle mie parole. Potevo riempire di significati quello che stavo vedendo. Qualcuno aveva iniziato un lavoro per me – mostrarmi l’essenza dell’amore che avevano cantato Catullo e Ovidio, Dante e Shakespeare, Baudelaire e Proust – e io lo stavo portando a termine.
Finalmente avevo capito non solo il significato della teoria che leggerete nelle prossime pagine, ma avevo anche compreso ciò di cui quel- la teoria parla: l’opera d’arte.
Serve tempo e sensibilità per arrivare al cuore delle cose, serve tempo anche per capire il proprio tempo perché, alle volte, il mondo in cui viviamo è anche il più distante qualora non si riesca a metterlo a fuoco nel modo giusto. Se una teoria può colmare lo spazio che ci separa dal- la comprensione delle cose del mondo, allora, credo che si tratti di una buona teoria.
Grazie mille Arthur.

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La rivoluzione copernicana di Danto


«Caro Professore, mi ricorda quella strana storia della banconota da cinque dollari che ho visto in uno dei quadri appesi alle pareti del suo studio, nella casa di Riverside Drive? Cos’era? Un dollaro vero inserito in uno spazio di finzione? O, forse, un dollaro dipinto che ne imita uno vero?».
«Cara Tiziana, ti ricordi il trompe l’œil di una comune banconota da cinque dollari, appeso al muro poco distante dalla scatola Brillo. Vidi l’opera parecchi anni fa dal finestrino dell’autobus mentre stavo andando nella zona Est di Manhattan a prendere mia figlia che usciva da scuola. La vidi di sfuggita e compresi subito che era autentica. Scesi dall’autobus e percorsi di fretta qualche blocco lungo la Broadway – arrivai sino alla Centodecima Strada. Entrai in una bottega dell’usato, gestita da un ispanico. Dissi che ero interessato alla cornice, che era di un color oro e aveva intarsiata una decorazione floreale. Il negoziante mi disse che mi potevo comprare tutto se gli avessi dato una banconota da cinque dollari in modo da ripagargli quella all’interno della cornice, appiccicata sulla tela, che lui non era riuscito a staccare. Gli ho dato sette dollari, cinque per il risarcimento e due per la cornice. Ho acquistato un dipinto estremamente raro, opera dei “money painters”, la cui scuola fiorì alla fine dell’Ottocento. Il nome dell’autore del dipinto è N. A. Brooks; c’era la firma sul quadro, cui, evidentemente, il venditore non aveva fatto caso. Oggi vale molto denaro. La banconota dipinta è davvero identica a una banconota vera, se non fosse che ora si tratta di un tipo di dollaro fuori corso...».
Oggetti comuni che diventano opere d’arte, opere d’arte che vengono scambiate per oggetti comuni, oggetti stra(ordinari) che entrano ed escono dal mondo dell’arte e dai musei senza che in molti capiscano davvero le ragioni di tutto questo andirivieni. Questo è il nucleo teorico da cui prende le mosse la filosofia dell’arte di Arthur Danto.
Come avremo modo di vedere tra breve la filosofia dell’arte dantiana trova la sua espressione teorica più matura nella Trasfigurazione del banale (1981), un libro che con capacità immaginativa e con rigore filosofico affronta una domanda antica quasi quanto il mondo (“che cos’è un’opera d’arte?”), afferrando un’occasione storica – il mondo dell’arte espresso dalla New York della seconda parte del Novecento – e un’occasione teorica, quella che emergeva dalla difficoltà di distinguere le opere d’arte dai comuni oggetti materiali.
Mi sono stupita tantissime volte di come i ragionamenti dantiani siano nati da osservazioni semplicissime: in effetti, alle volte è sufficiente guardare il mondo ponendosi da un punto di vista non tradizionale per trovare le risposte che si stanno cercando. Come che sia, Danto ha saputo ridefinire il concetto di arte proprio nel momento in cui filosofi e artisti disperavano di poterlo fare; quando cioè le antiche teorie non era- no più soddisfacenti e c’era chi – mutuando dalla filosofia generale una nota posizione wittgensteiniana – sosteneva che non solo una definizione non era più possibile ma, in fondo, non era nemmeno più necessaria.
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Che tipo di cosa è un’opera d’arte? Questioni di ontologia e interpretazione

Ad onor del vero, nel mondo dell’arte degli anni sessanta, avrei potuto trovare esempi di queste copie ovunque. Fluxus, per esempio, usava il cibo come arte. I minimalisti usavano parti di edifici prefabbricati e altri prodotti industriali. Gli artisti pop come Roy Lichtenstein ingrandivano i fumetti trovati nelle confezioni di gomme da masticare, presentandoli come dipinti. (Danto, The Abuse of Beauty, trad. it. pp. 20-21).


Dal punto di vista teorico l’arte di Andy Warhol rappresenta innanzitutto un riferimento esemplare che, tra l’altro, aveva già avuto un importante precedente in Duchamp (Danto, The Transfiguration of the Commonplace, trad. it. p. XXIV) e che aveva molti praticanti nei movimenti dell’avanguardia americana. La questione, agli occhi di Danto, prima che riguardare l’arte o l’estetica aveva a che fare con la metafisica: come è possibile che uno stesso oggetto possa essere due cose diverse, vale a dire un oggetto materiale e, insieme, un’opera d’arte, considerando il fatto che da sempre – e cioè almeno a partire dalla Teoria Imitativa formulata da Platone – oggetti materiali e opere d’arte sono appartenuti a classi differenti? Gli artefatti, direbbe Platone, valgono di più delle opere d’arte, le opere, è stato detto per secoli a partire dalla modernità, valgono di più dei comuni oggetti materiali. Sia come sia, l’unica certezza è sempre consistita nella non coincidenza delle due classi.
E non è solo questione di tradizione filosofica, ma anche di ontologia. Il principio di identità degli indiscernibili, meglio noto come “legge di Leibniz” – secondo il quale se non è possibile distinguere due enti, allora si ha a che fare con un solo e medesimo ente – va esattamente in questa direzione. In altre parole se due enti x e y (Fountain | Fountain ) esibiscono esattamente le stesse proprietà, se cioè ogni predicato valido per x è valido anche per y, allora x e y sono la stessa cosa. Ne consegue che Fountain sarà esattamente lo stesso oggetto di Fountain.
Ma se le cose stanno così per quale ragione le nostre case traboccano di oggetti la cui controparte (artistica) si trova nei musei? Come è possibile che questo avvenga senza che siano violati i fondamenti del pensiero metafisico? O, all’inverso, senza che si perda la separazione tra oggetti ordinari e opere d’arte con il rischio che ci si veda costretti a rinunciare proprio alle opere?
In fondo chi di noi non ha manifestato un qualche imbarazzo di fronte a certa arte contemporanea? La versione cinematografica della scena è quella di un ormai classico Alberto Sordi nel film Le vacanze intelligenti: dopo aver girato a lungo per i padiglioni della Biennale, Remo (Alberto Sordi) fa sedere la moglie, la signora Augusta, sopra una sedia all’ombra di un albero imponente e si allontana per cercare qualcosa con cui ristorarsi un po’. Nel frattempo si avvicina un gruppo di turisti, intellettuali radical chic abituati a leggere le opere che, adocchiando la povera signora Augusta, accasciata sulla sedia per la stanchezza, la scambiano per una scultura vivente: «Sedia con corpo adagiato», osserva la visitatrice con l’aria di chi la sa lunga. E il marito glossa: «Corpo vivente, cara. Io, per sedici-diciotto milioni la comprerei. A me sembra bello». E lei riprende: «Vedi quel corpo? Sembra una sfera che prima sprofonda verso il basso e poi s’innalza piano piano come sospinta dal vento che muove la palla...».
A questo punto Remo irrompe nuovamente sulla scena e rivolgendosi a quel corpo, che era sua moglie, e che agli occhi dei due visitatori doveva essere una scultura osserva: «Ahò, qui alla Biennale non c’hanno niente da magna’. Avevano solo ’sti barattoli: bevi che è fresco». E Augusta, indicando i due che la osservano ribatte: «Ma chi so’ questi? Me stanno a fotografa’». «Questa è la mia signora – riprende Remo – che fotografate?». E poi, aiutando la moglie ad alzarsi: «Ma non glielo potevi di’?». E la moglie: «E che gli dovevo di’?». «Che non sei una statua – ribatte Remo – è mica una donna nuda questa». «A Re’ mi volevano compra’ per diciotto milioni», insiste Augusta. «Diciotto milioni? – sottolinea stralunato Remo – Ammazza, ma non è troppo?!».
E la risposta è sì, in questo caso almeno, forse è davvero troppo: nel senso che il corpo della signora Augusta non ha prezzo in quanto corpo di una persona, ma non vale nulla come opera. E questo semplicemente perché non si tratta di un’opera: non è sufficiente che una turista colta decida di considerare quel corpo un’opera d’arte perché questo lo diventi. Serve qualcosa d’altro ed è appunto questo “qualcosa” l’oggetto della filosofia dell’arte di Arthur Danto.
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(Si ringrazia Carocci Editore per il permesso alla pubblicazione dell’estratto).