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In quello che segue instaurerò un confronto con l’idea centrale della ‘documentalità’ (la specifica ontologia sociale proposta da Maurizio Ferraris), secondo cui la scrittura, più precisamente l’iscrizione di atti su supporti materiali, è essenziale per il darsi dei cosiddetti oggetti sociali, i quali sarebbero appunto il risultato di tali iscrizioni. Non si dà società senza memoria; la fissazione, da parte di soggetti, delle memorizzazioni di atti mediante registrazioni e iscrizioni produce oggetti sociali e, più in generale, spiega la genesi della società. Per avere un’idea di che cos’è la documentalità, o, meglio, di cosa si occupa, dal momento che è sempre possibile definire una scienza o una disciplina per mezzo degli oggetti di cui si occupa, basta scorrere l’elenco degli esempi forniti nella prima pagina di Documentalità (Laterza, Roma-Bari 2009): soldi, opere d’arte, matrimoni, divorzi, mutui, codici fiscali, crisi economiche, progetti di ricerca, studenti, monsignori, assunzioni, licenziamenti, sindacati, rivoluzioni, parlamenti, avvocati, guerre, tasse – e tanti altri se ne potrebbero aggiungere. Sono oggetti senz’altro molto eterogenei un quadro e un matrimonio, un codice fiscale e un sindacato. Una teoria che ambisce a fornire una spiegazione unitaria o sistematica di una simile varietà di oggetti si propone come una teoria molto potente. Ed è in ragione di questa maggiore potenza esplicativa che Ferraris, attraverso un recupero e una riformulazione delle tesi di Derrida sulla scrittura e la traccia, critica l’ontologia sociale di Searle. Attribuisco grande valore alle ricerche ontologiche che prendono in esame gli oggetti del nostro mondo storico e sociale, non soltanto per ragioni di completezza, ma anche perché aprono una porta all’introduzione dell’elemento politico in ambito teoretico. Un’ontologia che voglia essere completa deve dare ragione anche di oggetti come la Rai, la Repubblica italiana, il Fondo monetario internazionale, l’OCSE, le leggi, i debiti, gli scioperi, i licenziamenti, che condizionano la nostra vita pubblica e privata – e se qualcosa ha effetti, non può non essere reale. Concordo pertanto con Maurizio Ferraris nel ritenere che quelli appena elencati sono oggetti reali, in quanto temporalmente determinati, ma di tipo diverso dagli oggetti naturali. Più in generale, concordo su alcune sue tesi di ampia portata (come le distinzioni di verità-realtà, scienza-esperienza), anche se sulla base di argomentazioni diverse da quelle da lui addotte. Più avanti ne esporrò qualcuna. Dapprima mi concentrerò sulla nozione di oggetto sociale e sulla potenza esplicativa della documentalità, infine mi interrogherò, partendo da una critica della nozione di intenzionalità collettiva di Searle, su alcune implicazioni di carattere politico dell’ontologia sociale. Preciso subito che non metto in discussione l’importanza dei documenti per la nostra vita di uomini e donne occidentali. Ne è un segno evidente la sensazione di sgomento che ci assale nel momento in cui, usciti di casa, ci accorgiamo di non avere con noi il portafogli. Il portafogli, con le sue carte e le sue banconote, infonde sicurezza; essendo sprovvisti del portafogli, o, più esattamente, delle carte che dovrebbe contenere, ci sentiamo smarriti. (Figuriamoci poi se ci troviamo in un Paese straniero non comunitario). Secondo Kant, non v’è cosa più desiderata da un filosofo, che venire in possesso di un unico principio, il quale possa conferire unità alla molteplicità dei concetti e dei principi che in precedenza gli si erano presentati come dispersi (Ak. IV, 322). La regola costitutiva “Oggetto = Atto Iscritto” sembra voler rispondere, limitatamente agli oggetti sociali, a un simile desideratum. Consideriamo un esempio abbastanza comune: il matrimonio. È una cosa? Esiste? Se non esistesse, non sarebbero necessari gli avvocati per divorziare, ma che cos’è? Sappiamo che il sì degli sposi è diverso dal sì che risponde alla domanda “Vuoi ballare?” o “Hai voglia di venire al cinema?” – se non altro perché è più difficile tornare sui propri passi. E sappiamo anche che non basta dire sì, perché due sposi abbiano effettivamente contratto matrimonio; quel sì va fissato, registrato, iscritto. Ne deriva una dipendenza del matrimonio dal documento firmato. Un oggetto sociale è però anche la legge che regola il matrimonio, il sindaco o il prete che lo celebra; e lo è anche il divorzio che scioglie il matrimonio. Sembra che un oggetto sociale non si spieghi senza il concorso di altri oggetti sociali; ciò che è socialmente indipendente non è, invece, un oggetto sociale, sebbene possa contribuire alla sua costituzione. Tornerò più avanti sulle nozioni di dipendenza e relazione. Dunque, un oggetto sociale come un matrimonio (ma anche una legge o un contratto) non è un nulla, ma – come ha messo in evidenza Paolo Di Lucia (“Tre modelli dell’ontologia sociale”, in Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive, a cura di P. Di Lucia, Macerata, Quodlibet, 2003, pp. 16-17) richiamandosi a Hans Kelsen – può essere nullo o essere annullato, se non possiede i requisiti richiesti dall’ordinamento statale vigente; la nullità sembra addirittura essere una peculiarità degli enti sociali, che li distinguerebbe da quelli naturali. Ovviamente, accanto ai reati prescritti e agli atti annullati, vi sono anche le banconote false, i documenti contraffatti, che pongono problemi diversi – in quanto pretendono di valere come se fossero autentici –, ma sono anch’essi oggetti sociali. Ciò si evince anche dalla tripartizione degli oggetti proposta da Ferraris: se tre sono le sfere di oggetti (naturali, ideali e sociali), tutto ciò che non è meramente naturale, né ideale, è un oggetto sociale – quindi anche le banconote e i documenti falsi. Tuttavia, un documento falso, nel momento in cui lo si scopre falso, non ha più valore di documento (nella terminologia di Documentalità, decade da documento forte a documento debole, pp. 299-300). Lo stesso vale per le banconote false: una banconota da dieci euro, che sappiamo essere falsa, non vale dieci euro. Gli oggetti sociali che hanno un valore in virtù della loro autenticità, perdono tale valore, se scopriamo che sono falsi; non sono più quello che credevamo che fossero. Una banconota falsa è, alla fine, come un falso amico o un diamante falso, che non è un amico o, rispettivamente, un diamante. ‘Falso’ è un attributo modificante, non determinante, se applicato agli oggetti, i quali restano purtuttavia oggetti. Quanto appena detto richiede una breve spiegazione. La verità è una nozione semantica, la realtà una nozione ontologica. Un vero principe è semplicemente un principe, mentre un falso principe non è un principe. Se attribuito alle proposizioni e ai discorsi, entrambi i termini sono qualificanti. Se attribuito alle cose, invece, l’aggettivo ‘vero’ è ridondante – quando non è usato in senso traslato per significare ‘autentico’, ‘genuino’ e simili –, mentre ‘falso’ è – dicevo – modificante, nel senso che una cosa falsa non è di fatto quella che si credeva che fosse. Un falso amico si comporta come se fosse un amico, un diamante falso viene venduto come se fosse autentico, una banconota falsa viene usata come se avesse effettivamente valore di moneta. Nel commercio umano, nella prassi quotidiana, gli oggetti ‘falsi’ possono essere usati dai soggetti come se fossero autentici, ma di fatto sono qualcos’altro. Una banconota falsa non è un biglietto emesso dalla banca centrale con valore di moneta legale, così come un diamante falso non è stato estratto da una miniera di diamanti. Gli oggetti falsi sono delle finzioni: sono qualcosa, ma non quella cosa che sembrano essere. È vero che usiamo il termine ‘banconota falsa’, ma solo perché continuiamo a vedere nell’oggetto l’intenzione del soggetto che l’ha prodotta e, inoltre, perché ci imbattiamo in un limite del linguaggio, o dell’utente che usa il linguaggio, il quale, non possedendo nomi per tutte le cose, si serve di composti quali ‘banconota falsa’ o ‘diamante falso’. Come gli oggetti concreti, che cadono sotto la nostra percezione, anche gli oggetti sociali possono essere distrutti, o comunque corrompersi. Si possono bruciare le banconote e anche intere biblioteche con tutte le loro scartoffie, mentre non è possibile distruggere il numero 2 o il triangolo equilatero. Tutto ciò che è reale, si genera e si corrompe. Il discrimine fra il reale e l’ideale sta nella corruttibilità o meno, ovvero nella determinazione temporale. Un oggetto sociale non è senz’altro percepibile alla stessa maniera in cui lo è un oggetto naturale. Secondo Adolf Reinach (I fondamenti a priori del diritto civile, 1913, tr. it. di D. Falcioni, Milano, Giuffrè, 1990, p. 145), gli oggetti sociali non sono né fisici, né psichici, né ideali, ma sono entità invisibili e immateriali; per oggetti sociali egli intende principalmente entità giuridiche come i diritti e le obbligazioni. Tuttavia, se il reale si definisce come ciò che ha effetti ed è temporalmente determinato, allora gli oggetti sociali sono reali, pur non essendo materiali. Secondo il ‘testualismo debole’ sostenuto da Ferraris, non soltanto la classe degli oggetti sociali è molto più ampia e contiene come sua sottoclasse propria quella degli enti giuridici, ma gli oggetti sociali non sono completamente immateriali, perché almeno l’iscrizione – senza di cui non si dà oggetto sociale – necessita di un supporto materiale (che può essere un blocco di marmo, un pezzo di carta, un file di computer, o anche la testa delle persone, Documentalità, pp. XIII, 176, 181), sul quale l’atto viene registrato e che occupa una porzione dello spazio-tempo. Oggetti diversi come “una promessa, un debito, un matrimonio, una guerra” (p. 184) possiedono un elemento comune: essere il “risultato” della registrazione di un atto su un supporto fisico (pp. 176, 181). Questo non significa che l’oggetto sociale si identifichi con l’iscrizione. L’atto iscritto spiega la genesi e la permanenza dell’oggetto, ma “non è identico all’oggetto” (p. 190), e non soltanto perché potremmo avere delle false registrazioni. Tutto ciò comporta che l’oggetto sociale è un oggetto ibrido, costituito di parti non omogenee. Non è un oggetto astratto, perché – come abbiamo visto – ha una determinazione temporale, non è un oggetto fisico, perché è dipendente dai soggetti (senza i quali la sua genesi resterebbe inspiegata) e perché non è percettibile come un oggetto fisico, almeno non in tutte le sue parti. L’oggetto sociale è costituito di parti eterogenee, alcune percettibili e visibili, come questo pezzo di carta, altre impercettibili e invisibili, come il valore di contratto di questo pezzo di carta, che gli viene da altri oggetti sociali. Da quanto detto derivano delle conseguenze rilevanti. Intanto, dalla classificazione degli oggetti in tre classi risulta – come si accennava sopra – che la documentalità si propone come una teoria molto potente, che intende fornire una spiegazione unitaria del sociale, ovvero di tutto ciò che non è né meramente naturale (come gli oggetti socializzati), né ideale – una varietà sconfinata. A tal fine, Ferraris raggruppa sotto il nome di ‘archiscrittura’ tutti gli oggetti la cui identità è sancita da tracce, registrazioni, iscrizioni. L’iscrizione “è una traccia o modificazione fisica che si appone su un supporto” (p. 51), la registrazione è la traccia depositata nella mente, la traccia è qualsiasi forma di modificazione di una superficie che vale come un segno, il quale può essere interpretato, perché ha un significato. In Documentalità il concetto di scrittura ha un’estensione molto ampia, ulteriormente ampliata dall’archiscrittura: sono scrittura sia le iscrizioni su pietra sia quelle sui nostri neuroni, sono scrittura (nel senso dell’archiscrittura) sia le usanze e i riti, sia le marcature del territorio da parte degli animali. L’archiscrittura, intesa come ciò che precede e circonda la scrittura, è il mondo dei significati, è ciò che rende possibile il linguaggio verbale articolato. Per la documentalità, l’archiscrittura è una nozione fondamentale e necessaria, pena l’esclusione di molto del mondo sociale. Riguardo a questo, vale dire che “In principio era l’azione”, non una parola o un pensiero, che è stato successivamente espresso verbalmente, ma un gesto significante, che ha segnato una traccia – magari un gesto violento, che ha fatto dell’ingresso di una caverna una soglia, un confine, senza che nessuno avesse il concetto di confine. Ma chiamare ‘scrittura’ sia il rito, e quindi anche la danza, sia il dna, porta a chiamare con lo stesso nome cose estremamente disparate. Cosa resta che non sia scrittura (nel senso dell’archiscrittura)? Anche la natura è stata letta come una foresta di simboli. Una seconda conseguenza è una presa di posizione non soltanto contro il fisicalismo, dal momento che si danno anche oggetti ideali e oggetti sociali, e contro il postmodernismo, poiché il mondo esiste indipendentemente dal soggetto e dalle teorie, ma anche contro il nichilismo, più precisamente contro quell’esaltazione dell’essere – penso, ad esempio, a una delle prime pagine dell’Introduzione alla metafisica di Heidegger ([1935] tr. it. di G. Masi, Milano, Mursia, 1968, p. 16) – che conduce al nichilismo. La documentalità si occupa di piccole cose, che si danno su questo granello di sabbia che chiamiamo Terra, e che sono importanti per ciascuno di noi mortali. Nel fare questo, essa ridimensiona, ma non annulla, il ruolo del soggetto nella creazione di realtà, anzi lo valorizza proprio in relazione al mondo sociale. Questa valorizzazione avviene attraverso una critica e un successivo recupero del ‘trascendentalismo’. Documentalità presenta un doppio movimento. All’inizio del volume, Ferraris parla della sua ontologia come di un’ontologia descrittiva di carattere aristotelico (p. 8): il mondo è dato, e non costruito, come vorrebbe Kant. Dalla tesi che non è il soggetto a strutturare l’esperienza, perché questa è già strutturata in sé, deriva una critica dei vari tentativi di appiattire l’ontologia sull’epistemologia, che coinvolge Descartes e lo sviluppo di pensiero che ne è seguito, soprattutto Kant, fino al postmodernismo. Ciò che viene rifiutato nelle prime due sezioni del libro, viene però ricuperato dalla terza alla sesta sezione, ma circoscrivendone l’ambito di validità. All’affermazione generale e fondamentale di realismo fa seguito un ricupero del trascendentalismo, ma limitatamente agli oggetti sociali. Non tutto il mondo è dato, non tutto è costruito. Il soggetto non crea tutto il mondo, ma svolge un ruolo rilevante nella produzione di certi oggetti, gli oggetti sociali appunto. Questi sono dipendenti dai soggetti, ma non sono soggettivi, nel senso che non dipendono dall’arbitrio dei soggetti. D’accordo sulla tesi, faccio due osservazioni critiche su come ci si è arrivati: una riguarda l’interpretazione di Kant, l’altra il passaggio dal semplice al complesso. Le categorie kantiane, e gli schemi che pretendono di mediare fra concetti e intuizioni, non sono il sapere, né si identificano con le nostre specifiche conoscenze scientifiche, ma sono la condizione della possibilità della conoscenza, e quindi del sapere. Le categorie svolgono la funzione di conferire unità alla molteplicità delle rappresentazioni. Non intendo discutere qui problemi interni alla Critica della ragion pura, a partire dal fatto che ‘rappresentazione’ è in Kant un termine non specifico, ma molto generico (A 320 = B 376-377), bensì semplicemente rilevare che un conto è sostenere che le nostre percezioni sono condizionate dalle teorie, un altro è ritenere che esse siano ordinate e unificate secondo le categorie, che non sono teorie. Concordo poi sul fatto che, a livello di percezioni semplici, non sia necessaria nessuna cultura o teoria, non concedo che ciò che vale per il semplice valga ipso facto anche per il complesso; e noi in genere abbiamo a che fare con percezioni molto complesse. Qualche giorno fa a Urbino, sotto il portico della chiesa di San Francesco, c’era un piccolo mercatino, di fatto però non si poteva comprare nulla, perché nulla era in vendita. Chi è passato lì davanti, ha visto banconi, oggettistica, persone, non tutti hanno visto l’allestimento di un set cinematografico, delle comparse e degli attori. In casi come questo, non soltanto l’attenzione, ma anche il sapere gioca un ruolo. Non mi addentro in un esame di simili questioni, riprendo invece il discorso sull’oggetto sociale. Si diceva che l’iscrizione dell’atto su un supporto fisico è necessaria, essenziale, perché vi sia un oggetto sociale, ma che essa non esaurisce l’oggetto: il certificato che attesta il mio matrimonio non si identifica con il mio matrimonio, ma lo identifica, così come l’atto notarile che attesta che sono il proprietario della casa in cui abito non coincide con la mia proprietà della casa. Poiché presuppongono atti e soggetti, gli oggetti sociali sono oggetti complessi. Come tali, essi sono oggetti di ordine superiore, ovvero oggetti, le cui parti costituenti sono collegate da relazioni; più precisamente, sono oggetti dipendenti da altri oggetti che ne stanno alla base, i quali possono a loro volta essere oggetti di ordine superiore – come è il caso per gli oggetti sociali, che (abbiamo visto) richiedono l’esistenza di altri oggetti sociali. Ho accennato all’inizio al problema del regresso; ci chiediamo ora se giungiamo a un certo punto a degli infima oppure no. Posto che vi siano, non è facile individuare gli infima, poniamo, di un certo matrimonio (figuriamoci di uno stato). Senz’altro l’iscrizione è essenziale, perché, senza il documento firmato, non vi sarebbe quello specifico matrimonio, ma – dicevamo – il matrimonio esige non soltanto dei soggetti, che sono portatori di diritti, ma anche una legge che lo regoli, la quale è stata votata da un parlamento, che è stato eletto da degli elettori, conformemente a una certa legge elettorale. E si potrebbe continuare. Lo stesso dicasi per un’università: lo statuto, il regolamento, l’ordinamento degli studi sono essenziali perché essa esista, eppure l’università non è tutta lì, non coincide con i documenti, che pure – ripeto – sono necessari. Ebbene, in più luoghi di Documentalità si legge che l’iscrizione “identifica” l’oggetto (pp. 190, 192). Partendo allora dall’iscrizione, si può giungere a individuare una rete di enti – costituita almeno dai soggetti e dall’atto istitutivo, ma poi anche dai soggetti che riconoscono il documento e dagli altri oggetti sociali coinvolti –, che tutti insieme costituiscono quel matrimonio, quella università, che è ovviamente un oggetto complesso e, come tale, di ordine superiore. Questa rete di oggetti è il contesto – che vorrei chiamare ‘dialettico’, per distinguerlo dal contesto fenomenologico, o spazio-temporale, in cui l’oggetto si trova. Come risolvere il problema del regresso? Intanto, teniamo presente che ci poniamo al livello dell’esperienza, non della scienza; in ogni caso, la conoscenza completa di un qualsiasi oggetto è esclusa. Quali sono i limiti dell’oggetto sociale? Ovviamente, non sono netti, ma non vanno all’infinito; si raggiungono quando l’intensità della relazione è infinitesima e può quindi essere trascurata. Il ruolo del soggetto è, in tal caso, quello di ritagliare l’oggetto, conformemente a un certo livello o interesse epistemico. Se si accetta che le relazioni non sono estrinseche all’oggetto, ma sono costitutive della sua identità, allora un oggetto sociale non è un individuo – se per individuo si intende non soltanto qualcosa di unico, ma anche di singolare, indipendente e separato –, è invece un oggetto la cui identità non sta esclusivamente nelle sue proprietà, ma appunto nelle relazioni che esso ha con altri oggetti. Quali? Quelli appartenenti al contesto dialettico individuato a partire dall’iscrizione. L’oggetto iniziale e il suo contesto dialettico costituiscono una ‘porzione di mondo’, che non ha confini netti e manca di continuità spaziale fra le parti. Quando si parla di ontologia sociale, oggi si pensa in primo luogo a Searle (La costruzione della realtà sociale (1995), tr. it. di A. Bosco, Milano, Edizioni di Comunità, 1996). La critica che Ferraris muove alla teoria di Searle riguarda, per un verso, la limitata potenza esplicativa della teoria, che lascerebbe inspiegati una grande quantità di oggetti sociali, per un altro, l’uso di una nozione problematica come quella di intenzionalità collettiva. Ne discuterò brevemente, ma da una prospettiva diversa da quella di Ferraris, per delle ragioni che si chiariranno fra breve. Se intenzionalità collettiva significa attività di cooperazione (pp. 33 ss.), la spiegazione che Searle dà della costruzione della realtà sociale mostra davvero “troppa tenerezza per le cose del mondo”, perché ci presenta un mondo sociale che si è costruito, e si costruisce, unicamente attraverso la concordia e la cooperazione, e non invece come il risultato anche di conflitti e lotte. Il conflitto è non una parentesi o un’aggiunta surrettizia, ma una componente del nostro mondo storico e sociale – e con il conflitto la violenza, propria di colui che dice no. Ciò è evidente, se solo si pensa che lo stato arroga a sé la gestione della violenza. Si prenda il caso del confine. Searle fa l’esempio di un muro, che circonda il territorio di una tribù e che col tempo si sgretola, finché resta solo una fila di pietre a demarcare i confini del territorio. La fila di pietre può svolgere tale funzione, a condizione che sia riconosciuta dagli abitanti di quel territorio e dai loro vicini, ovvero che vi sia accordo tanto fra gli abitanti del territorio quanto fra costoro e le popolazioni vicine (pp. 48-49). Ma prendiamo il caso del colono, che arriva in un altro territorio, pone i suoi confini e contro gli indigeni, che si vedono espropriati del loro territorio, difende con la violenza i confini da lui stesso posti. Il confine c’è, ma è tutt’altro che il risultato di un accordo o di una cooperazione fra individui. Il colono e gli indigeni non sono per nulla paragonabili alle popolazioni dell’esempio precedente, né, secondo un altro esempio proposto da Searle per parlare del conflitto, a due pugili che cooperano alla realizzazione di un incontro di boxe (p. 33) – a meno che non si voglia sostenere che la guerra è una cooperazione alla distruzione reciproca. Avremmo però un termine con significati non soltanto diversi, ma addirittura opposti, che piacerebbe molto a Hegel, ma poco a Searle, credo. La parola ‘confine’ non ha tuttavia un significato esclusivamente di natura spaziale, non designa soltanto il limite estremo di un terreno, di una proprietà, del territorio di uno stato, ma ha molte altre valenze. Si prenda ad esempio il permesso di soggiorno dei migranti. Come ha osservato Augusto Illuminati (Per farla finita con l’idea di sinistra, Roma, DeriveApprodi, 2009, p. 39), il permesso di soggiorno segna il confine tra lavoro nero e lavoro legale: con lo scadere del permesso di soggiorno, si piomba nell’illegalità. Il regolare diventa irregolare. È forse per una perversa intenzionalità collettiva che unisce burocrazia filogovernativa, imprenditori edili e possidenti agricoli di piantagioni allo scopo di ottenere manodopera a basso prezzo, creando concorrenza fra gli stessi migranti, che i tempi per il rinnovo del permesso di soggiorno sono straordinariamente lunghi? Che una legge sia anche un confine e possa modificare l’identità di un individuo in quanto ente sociale non è cosa nuova: ce ne riferisce in pagine memorabili Karl Löwith, quando ci racconta come ha preso coscienza di essere ebreo. Seppure espressa con un linguaggio nuovo, l’ontologia sociale di Searle sembra presupporre una tradizionale teoria contrattualista della società e dello stato. Presuppone anche la documentalità una concezione contrattualista o stipulativa della società? Documentalità reca come sottotitolo “Perché è necessario lasciar tracce”. In un breve commento alla poesia di Brecht Verwisch die Spuren!, Benjamin individua tre precetti: (1) quello che è il primo comandamento per il migrante clandestino e che Brecht ribadisce a più riprese: “Cancella le tracce!”; (2) un precetto giudicato “singolare” per l’intellettuale del 1928: “Trovi il tuo pensiero in un altro: rinnegalo”; (3) infine, un precetto divenuto obsoleto, “Fa’ in modo, quando conti di morire, che non vi sia un sepolcro e riveli dove tu giaci”, obsoleto perché quest’ultima preoccupazione è stata risparmiata al clandestino da Hitler e dai suoi accoliti (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, hrsg. von R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1980, Bd. II.2, p. 556). Oggi, un sepolcro muto è il tratto di mare tra le coste del Nordafrica e la Sicilia, e le leggi razziali trovano un valido sostituto nella sciagurata legge dello stato italiano sul reato di immigrazione clandestina (legge 94 del 15 luglio 2009, art. 19). L’illegale distrugge dei documenti, per sfuggire a una violenza legalizzata da altri documenti. L’illegale è reso tale da una legge, non è semplicemente un migrante, è qualcosa di più, un clandestino. Lo è diventato nel momento in cui è entrato nel territorio dello stato italiano. Il clandestino e lo stato italiano (almeno stando alla legislazione attualmente in vigore) non hanno stipulato un accordo, non convengono su nulla, anzi sono in netta opposizione reciproca, di Realrepugnanz direbbe il Kant precritico: il clandestino vuole entrare in territorio italiano, lo stato italiano non lo vuole e lo respinge. Di nuovo, non c’è cooperazione. Si potrà giungere a un accordo solo eliminando l’opposizione: o il migrante rinuncia a venire in Italia, e a quel punto la legge può pure restare in vigore, ma non vi saranno clandestini da perseguire; oppure lo stato italiano cambia la legge, sostituendo ai respingimenti l’accoglienza, e a quel punto ci saranno immigrati, ma non saranno più clandestini. In alcune pagine di Sans papier (Roma, Castelvecchi, 2007) è presente la figura del migrante. Se ne parla in relazione alla nuda vita: il migrante che giunge in Italia – scrive Ferrais – possiede solo la nuda vita, “la vita senza altre determinazioni, e alla mercé di chiunque, […] che può sparire senza lasciar tracce” (p. 25), in quanto identità e nazionalità vengono cancellate, spesso intenzionalmente. Coloro che sono rinchiusi nei Centri di identificazione ed espulsione (difficile immaginare un nome più volgare) sono, da un punto di vista ontologico, oggetti sociali complessi, plurimi. Il migrante è un cittadino senegalese, un diplomato, un marito, che solo successivamente è diventato un migrante e, giunto in Italia, un clandestino, il più delle volte richiedente asilo. In quest’ultimo caso, la sua situazione è paradossale: deve possedere documenti appropriati per chiedere (e sperare di ottenere) asilo, deve distruggere i documenti per evitare di essere rimpatriato. Chi sfugge ai Cie cerca, per quanto gli è possibile, di non lasciare tracce. Essere sans papiers significa essere fuori del sociale? Significa recedere dalla vita vestita alla nuda vita? Ma questo è impossibile, perché un migrante sans papiers è un clandestino, un oggetto sociale prodotto da una legge e perseguibile a norma di legge. Se possiedi documenti, sei sotto il controllo del potere, se non li hai, o non li hai in regola, sei perseguito dal potere. Puoi provare a cancellare le tracce, ma non fino al punto da non essere più un oggetto sociale, da recedere alla nuda vita, perché quell’oggetto sociale (la legge) che ti rende un clandestino non richiede il tuo assenso, così come una legge antimafia non richiede il consenso dei mafiosi. Quella che abbiamo prodotto è una società a porte chiuse. |
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