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La rivincita di Bellarmino. Ultime prospettive della Chiesa Cattolica in materia di fede e scienza
di Mario De Caro e Telmo Pievani
 
 
 
I. Sono trascorsi almeno quattro secoli da quando Galileo Galilei si batté per il diritto ad offrire un’interpretazione realista delle teorie scientifiche, un’interpretazione che non dovesse preoccuparsi del fatto se queste ultime contraddicessero o meno delle credenze religiose considerate “ortodosse”. Nella più lunga delle sue famose Lettere Copernicane, quella indirizzata nel 1615 alla Granduchessa di Toscana, Cristina di Lorena, Galileo, come è noto, propose una strada risolutiva al potenziale conflitto tra scienza e religione. Secondo tale approccio, quando ci si basa su un’attenta sperimentazione e su delle affidabili dimostrazioni matematiche, si può star certi che le scienze spiegheranno la reale struttura del mondo naturale – una natura che, nella propria essenza, è matematica. Perciò, in caso di conflitto tra una solida convinzione scientifica e una credenza religiosa (per esempio, una credenza fondata su un’interpretazione letterale della Bibbia) la prima è quella alla quale ci si dovrebbe affidare, mentre la seconda dovrebbe essere considerata metaforica e suscettibile di essere re-interpretata. Per dirla con le parole dello stesso Galileo:
[…] Mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima essecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; […] pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante .
Per quanto fosse ingegnosa e audace, la proposta di Galileo non era del tutto nuova. Diversi pensatori cristiani avevano, infatti, già riconosciuto una sorta di priorità epistemica della scienza naturale sulla fede, per quel che riguarda l’interpretazione del mondo fisico. Tertulliano, ad esempio, scriveva a cavallo tra il secondo e il terzo secolo d. C. «Noi sosteniamo che Dio deve essere conosciuto prima di tutto dalla Natura; poi di nuovo va conosciuto per mezzo della dottrina; nella natura dalle opere, nella dottrina dalle predicazioni» . Ai tempi di Tertulliano, tuttavia, questa era un’affermazione abbastanza innocua da mettere in pratica, dal momento che la scienza naturale non era ancora abbastanza progredita da poter entrare seriamente in conflitto con le credenze religiose. Al contrario, al tempo in cui Galileo la ripropose, la posizione che la scienza possedesse una priorità epistemica sulla fede per quel che concerne la conoscenza del mondo naturale si fece problematica. Il poderoso sviluppo della scienza moderna, infatti, contraddiceva importanti passi delle Sacre Scritture. Per esempio, il sistema Copernicano contrastava in modo evidente con un’interpretazione letteralistica di Giosué, Cap. 10, vv. 12-14, secondo il quale Giosué avrebbe ordinato al Sole (e non alla Terra) di fermare il proprio moto . La contraddizione è fortissima. A quale posizione dar retta? All’idea copernicana che la Terra orbiti attorno al Sole o a quella opposta, basata su di una interpretazione letterale della Bibbia?
La Chiesa Cattolica optò per una comoda via di scampo da questo dilemma: essa negò l’interpretazione realista. L’ispirazione di questa soluzione, effettivamente venne da un teologo luterano, Andreas Hosemann, meglio conosciuto con il nome da umanista di Osiander. Nel 1543, egli curò e pubblicò il capolavoro di Copernico De Revolutionibus Orbium Cælestium aggiungendo al testo copernicano una prefazione anonima. In essa egli affermava (contra Copernico) che la visione eliocentrica difesa nel libro dovesse essere intesa solo come uno strumento matematico per calcolare le orbite dei pianeti, non come una teoria vera. Secondo Osiander, infatti:
[Dal momento che l’astronomo] non può in alcun modo attenersi alle vere cause, egli adotterà qualunque ipotesi in grado di rendere i movimenti calcolabili in modo corretto dai principi della geometria, per il futuro così come già fatto in passato […] [le sue] ipotesi non hanno bisogno di essere vere e neppure probabili .
Nel secolo seguente, l’interpretazione strumentalistica della teoria copernicana venne difesa dall’assai influente cardinale gesuita Roberto Bellarmino, uno dei protagonisti della Controriforma. Bellarmino fu un vigoroso Defensor Fidei contro le eterodossie religiose e filosofiche (egli fu lo zelante inquisitore del processo contro Giordano Bruno, il quale, trascorsi sette anni in carcere e dopo alcune ripetute torture, venne mandato al rogo nel 1600). Con egual zelo, Bellarmino difese anche le verità di fede contro il realismo scientifico di Galileo. Nella sua visione, la teoria eliocentrica doveva essere interpretata «ex suppositione e non assolutamente». Questa via, egli pensava, «salva tutte le apparenze […] non presenta alcun pericolo e […] accontenta i matematici» . Così, gli scienziati avrebbero potuto ancora usare le teorie copernicane per i propri calcoli; ma non avrebbero dovuto insistere sull’empia idea per cui la “loro scienza” possa spiegare la reale struttura del mondo naturale. Secondo questa prospettiva la credenza religiosa (fondata sulla fede) possiede un’assoluta priorità epistemica sulla credenza scientifica (fondata sulla ragione).
Nel 1616, Galileo cercava, così, di difendere la propria opinione sulla relazione tra scienza e fede di fronte al Santo Uffizio, quest’ultimo presieduto da Bellarmino . L’esito di tale convocazione fu il personale monito di Bellarmino a Galileo a non difendere più il copernicanesimo. Come è fin troppo noto, Galileo non rispettò tale ammonimento. In particolar modo, il celebre Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo (1632), irritò profondamente la Curia Romana e lo stesso Papa, Urbano VIII – vale a dire il già amico di Galileo, Maffeo Barberini. Come conclusione, nel 1633, Galileo venne portato dinanzi all’Inquisizione, e subì una sentenza ancor più severa .
La scienza, più in generale, soffrì a causa dell’atteggiamento severamente antiscientifico ufficialmente adottato dalla Chiesa Cattolica nel suo procedimento giudiziario contro Galileo (Descartes, ad esempio, ne venne così allarmato da decidere di non pubblicare il suo Il Mondo o trattato della Luce, nel quale difendeva il Copernicanesimo). Inoltre nei secoli seguenti, anche se numerosi membri del clero Cattolico contribuirono al progresso scientifico, l’atteggiamento ufficiale della Chiesa verso la scienza e, più in generale, nei confronti della “ragione secolare”, rimasero precari, ed assunsero di tanto in tanto toni interlocutori, come è provato, ad esempio, dall’influente enciclica anti-modernista di San Pio X, Pascendi Domini gregis, del 1907. In definitiva, ci volle un tempo davvero lungo perché la Chiesa accettasse la tesi di Galileo secondo la quale quando emergano conflitti concernenti l’interpretazione del mondo naturale, la scienza dovrebbe avere la priorità sulla fede. In particolare, le gerarchie più alte in grado della Chiesa Cattolica, risultarono ancora una volta esser schierate dalla parte di Bellarmino per quel che concerneva il nuovo grande conflitto tra la fede della tradizione e la scienza, vale a dire, in questo caso, la teoria darwiniana dell’evoluzione. Un chiaro esempio in questo senso è stato offerto dalla famosa enciclica di Pio XII, Humani generis del 1950, la quale, oltre al materialismo e al modernismo, attaccava anche l’evoluzionismo. In una passo emblematico, ad esempio, l’enciclica in questione criticò gli autori che «con temerarietà sostengono l’ipotesi monistica e panteistica dell’universo soggetto a continua evoluzione ». Considerando quanto sia stato persistente l’atteggiamento interlocutorio della Chiesa Cattolica nei confronti della scienza, non dovrebbe destare sorpresa il fatto che, nel 1930, Papa Pio XI avesse canonizzato Roberto Bellarmino, facendo del cardinale il patrono dei catechisti e degli insegnanti e insignendolo del titolo di Dottore della Chiesa (un titolo che è stato attribuito solo a trentatrè santi, in onore del magistero della loro teologia, della loro ortodossia e della loro santità).
II. Si può notare, tuttavia, che in Europa, l’anti-evoluzionismo “ufficiale” della Chiesa Cattolica non ebbe alcun impatto culturale o scientifico. Le cose andarono, in effetti, in questo modo, dal momento che dalla seconda metà del diciannovesimo secolo l’atmosfera culturale generale nel continente europeo era sempre più secolarizzata ed aperta nei confronti della scienza. Più specificamente, non ostante i punti di vista della Chiesa Cattolica, un diffuso secolarismo e una ben consolidata tendenza a fornire delle interpretazioni delle Sante Scritture in chiave metaforica, allegorica e simbolica (seguendo, in questo, la proposta di Galileo) prevenne effettivamente i potenziali conflitti tra fede e scienza. Perciò in Europa l’idea che la scienza fosse indipendente dalla religione divenne il punto di vista preponderante sia tra gli intellettuali (compresi molti scienziati e filosofi cattolici) che tra il pubblico dei fedeli. Di fatto, fino a tempi assai recenti, nessun movimento europeo anti-evoluzionista ha avuto così tanta influenza come quella che i fondamentalisti “evangelici” hanno avuto negli Stati Uniti. È fuor di dubbio che, anche a causa di questa generale cordialità nei confronti della scienza, l’atteggiamento della Chiesa Cattolica divenne infine più tollerante, specialmente dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962 – 1965). Giunte a questo punto, le cose cambiarono anche rispetto all’affaire Galileo. Completando un processo di riabilitazione iniziato nel 1757 dal Santo Uffizio, e che fece seguito ad una indagine di trentaquattro anni compiuta da una commissione Vaticana specificatamente approvata, nel 1992 Papa Giovanni Paolo II ritirò ufficialmente la condanna inflitta nel 1633 contro il grande scienziato italiano. In modo abbastanza incomprensibile, tuttavia, nel momento stesso in cui Galileo veniva dichiarato non colpevole, il comportamento dei giudici della Santa Inquisizione nel processo in questione venne valutato come del tutto corretto. Infatti, secondo Giovanni Paolo II, i giudici del tribunale dell’Inquisizione avevano fatto la cosa giusta nel chiedere a Galileo di non affermare la verità del sistema copernicano, dal momento che a quel tempo non vi erano “prove irrefutabili” in favore di tale ipotesi .
Da un punto di vista complessivo, nel suo nuovo corso, la Chiesa Cattolica sembrò aver finalmente accettato la tesi galileiana sulle relazioni tra credenze religiose e scientifiche. Una conferma di questo nuovo atteggiamento venne offerta da un importante messaggio sull’evoluzione che Giovanni Paolo II rilasciò nel 1996 all’Accademia Pontificia delle Scienze . In quell’occasione, Karol Joseph Wojtyla affermò apertamente che la teoria dell’evoluzione fosse più che una «mera ipotesi», sussistendo una convergenza di prove empiriche fornite in suo favore da molti campi scientifici indipendenti, dalla biologia molecolare alla paleontologia. Nel suo pronunciamento, tuttavia, il Papa non menzionò in modo specifico la teoria neo-Darwiniana dell’evoluzione. Egli parlò, invece, di differenti «teorie dell’evoluzione» – intendendo con tale espressione sia una pluralità di spiegazioni scientifiche dei meccanismi evolutivi sia una pluralità di interpretazioni filosofiche della teoria (quelle «materialistiche e riduttive» da un lato e quelle «spiritualistiche» dall’altro). Inoltre, Wojtyla non fu chiaro a proposito della questione se, oltre alla filosofia e alla teologia, anche la scienza potesse essere abilitata ad investigare il “salto ontologico” implicito dall’emersione evolutiva della nostra specie – una specie dotata di senso morale e di capacità religiose. In definitiva, l’affermazione di Giovanni Paolo II mostrò che l’atteggiamento della Chiesa Cattolica verso la teoria dell’evoluzione e nei confronti della scienza, in generale, era profondamente cambiato. L’approccio di Bellarmino era stato abbandonato. Ma questo atteggiamento, sfortunatamente, non durò a lungo.
III. Alla fine del pontificato di Giovanni Paolo II e, in modo evidente, da quanto Joseph Alois Ratzinger divenne Papa Benedetto XVI, nell’Aprile 2005, l’atteggiamento della Chiesa Cattolica verso la scienza, e in particolar modo nei confronti della teoria dell’evoluzione, cominciò a cambiare di nuovo – questa volta in una direzione che Galileo non avrebbe apprezzato molto. Negli ultimi anni, infatti, importanti esponenti della Chiesa Cattolica si sono sempre più espressi a proposito dei presunti errori delle teorie darwiniane o neo-darwiniane dell’evoluzione e, più in generale, sui pericoli etici, politici e spirituali derivanti dall’eccessiva complicità con la scienza espressa dalle società occidentali contemporanee.
La speranza di trovare una nuova versione, religiosamente appetibile, della teoria dell’evoluzione, ha irretito, per esempio, l’arcivescovo di Vienna, il Cardinale Christoph Schönborn, uno dei collaboratori più stretti di Papa Benedetto XVI, nonché uno dei principali curatori del catechismo ufficiale della Chiesa cattolica. Il 7 Luglio 2005, Schönborn ha pubblicato un articolo sul New York Times, – emblematicamente intitolato «Finding Design in Nature» – nel quale tentava di riconciliare due sentieri, quello culturale e quello religioso, tradizionalmente distanti. Il contenuto dell’articolo, in breve, era che, mentre l’ormai old-fashioned creazionismo letteralista fosse male indirizzato e perciò indifendibile nella propria interezza, il cosiddetto “Neo-creazionismo” centrato sulla cosiddetta teoria del “Progetto Intelligente”, potesse apparire come una prospettiva molto interessante –un approccio che i cattolici dovrebbero prendere in seria considerazione. Schönborn faceva notare come, a differenza della versione “disperatamente letteralista” del creazionismo, la teoria del Progetto Intelligente non metta fuori gioco le evidenze empiriche che supportano la tesi di un’origine comune e di una trasformazione evolutiva di tutte le specie. Tuttavia, tale teoria rigetta tutti quei fattori (vale a dire; mutazioni, selezione naturale, meccanismi genetici, migrazioni e altri aspetti macroevolutivi) tipicamente utilizzati dalla comunità dei ricercatori per spiegare i processi evolutivi. E li respinge come insoddisfacenti o semplicistici, appellandosi, invece, all’esistenza di un progettista praeter-naturale (o soprannaturale) e dotato di uno scopo. Questa prospettiva, insiste Schönborn, potrebbe, per i cattolici, svolgere il ruolo di una seria alternativa al darwinismo più materialistico.
Nel suo articolo Schönborn adotta – senza dirlo esplicitamente – alcuni degli argomenti tipicamente impiegati dai sostenitori nordamericani del Progetto Intelligente. Egli presenta le controversie ordinarie correlate all’interpretazione della teoria dell’evoluzione (quelle concernenti, ad esempio, i ritmi temporali del cambiamento, le unità evolutive e l’effettivo potere della selezione) come se tali controversie rappresentassero dei problemi insolubili per la teoria neo-darwiniana. Schönborn scrive che la spiegazione basata sulle variazioni casuali e sulla selezione naturale non può essere vera e, in ogni caso, è incompatibile con la fede Cristiana; infine, egli presuppone che il Progetto intelligente sia
l’unica spiegazione accettabile dell’evoluzione: «qualunque sistema di pensiero che nega o tenta di “spiegar via” l’incontrovertibile evidenza a favore di un progetto nella biologia non è scienza, ma ideologia». Schönborn conclude che «la Chiesa Cattolica, mentre lascia alla scienza molti dettagli della storia della vita sulla terra, proclama alla luce della ragione che l’intelletto umano può facilmente ed evidentemente discernere uno scopo e un progetto nel mondo naturale, incluso il mondo degli esseri viventi ».
È rimarchevole il fatto che Schönborn nel suo articolo non scriva che la natura del Progetto Intelligente possa essere, appunto, discreta dalla fede, non «dalla luce della ragione». Nel suo quadro ricostruttivo, la scienza naturale “standard” viene presentata come un genere di razionalità minore, un metodo di ricerca che può essere utile solamente per investigare i “dettagli” della storia naturale, mentre le verità più profonde della storia naturale possono essere comprese solamente da una sorta di scienza teologica. Per Schönborn, infatti, il ruolo giocato dal cieco caso nella teoria darwiniana, non è solo una minaccia per la fede cristiana, ma costituisce anche qualcosa di irrazionale dal punto di vista dell’intelletto umano. La sola spiegazione scientifica accettabile dell’evoluzione non può essere che una che affermi che la natura è stata formata secondo un Progetto Intelligente.
Non sarebbe certo un’esagerazione vedere la posizione di Schönborn come una riviviscenza di quella visione bellarminiana, un tempo caduta in discredito, secondo la quale la fede deve possedere una priorità epistemica sulla scienza naturale . In definitiva, l’impressione che l’articolo di Schönborn segni un radicale cambio di politica della Chiesa rispetto alla teoria dell’evoluzione trova conferma nel passo nel quale lo stesso arcivescovo di Vienna getta discredito sul messaggio di Wojtyla alla Pontificia Accademia delle Scienze, parlandone come di una «comunicazione piuttosto vaga e poco significativa». Schönborn cita nel suo articolo, e diverse volte, un documento del 2004 della Commissione Teologica Internazionale, presieduta a quel tempo dal Cardinal Joseph Ratzinger, nel quale veniva affermato che il messaggio di Giovanni Paolo II del 1996 «non può essere letto come un’ineccepibile (blanket) approvazione di tutte le teorie dell’evoluzione, incluse quelle di provenienza neo-darwiniana, le quali, esplicitamente, negano alla divina provvidenza uno vero ruolo causale nello sviluppo della vita nell’universo». Di fatto, secondo Schönborn, c’è una pluralità di “teorie dell’evoluzione”, e solo alcune di esse sono accettabili. Inoltre, un test cruciale di accettabilità per queste teorie sarebbe il loro riconoscere l’"autentico ruolo causale" giocato in natura dalla Divina Provvidenza. Sotto questa luce, «un processo evolutivo non guidato – vale a dire un processo che cada al di fuori dei confini della Divina Provvidenza – semplicemente non può esistere». Riassumendo, Schönborn (nel suo articolo) sta mettendo in chiare lettere che le sue non vogliono essere delle speculazioni filosofiche, ma che è sua intenzione parlare di eventi naturali. Così come egli scrive «La Chiesa Cattolica difenderà ancora la ragione umana proclamando che l’immanente disegno evidente nella natura è reale». Sotto questa luce, il Progetto Intelligente è reale, immanente ed evidente in natura e può essere compreso dall’umana ragione. Vista in questa luce, la teoria neo-darwiniana dell’evoluzione dovrebbe essere rigettata per due ragioni principali: essa non sarebbe buona scienza e contribuirebbe a generare prospettive filosofiche empie ed immorali. Lo stesso Benedetto XVI, del resto, aveva cominciato il proprio pontificato con un un’omelia nella quale aveva proclamato che «Noi non siamo i prodotti casuali e privi di significato dell’evoluzione ». Un’ affermazione programmatica che, nel suo articolo uscito per il New York Times, Schönborn aveva commentato notando che «Le teorie scientifiche che cerchino di spiegare la mera apparenza di un progetto (nella natura) come il risultato del “caso” e della “necessità” non sono affatto scientifiche, ma un’abdicazione dell’umana intelligenza »
Schönborn ha così preparato un potente attacco contro la teoria neo-darwiniana e, in generale, contro l’autonomia della scienza. La sua strategia è basata su tre passi argomentativi. Primo passo: gettare discredito sulla teoria neo-darwiniana facendo riferimento a delle spurie distinzioni neo-creazionistiche tra la prova empirica dell’evoluzione (che egli riconosce essere un fatto) e la sua più diffusa spiegazione scientifica (che viene, invece, presentata come indifendibile da critiche). Secondo passo: Schönborn insiste sulle conseguenze etiche e politiche inoppugnabilmente pericolose del darwinismo e del naturalismo. Terzo, la difesa del Progetto Intelligente viene presentata come necessaria al fine di proteggere il pluralismo e il liberalismo nella nostra società.
Le reazioni della comunità scientifica (incluse quelle di alcuni influenti scienziati cattolici, come il biologo Francisco Ayala) furono nette e vibranti. Il 3 Novembre 2005, il cardinale francese Paul Poupard, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, dichiarò che ogni attacco alla teoria darwiniana dell’evoluzione fondato su basi religiose o dogmatiche doveva essere considerato una forma di fondamentalismo. Il padre gesuita George V. Coyne, direttore di fama internazionale dell’Osservatorio Astronomico Vaticano, in un discorso rilasciato all’Atlantic University di Palm Beach (Florida), il 31 Gennaio 2006, fu ancora più chiaro. Coyne, di fatto, riaffermò la tesi di Galileo, argomentando a favore dell’idea che religione scienza costituiscano due imprese (intellettuali) completamente separate:
Mi piacerebbe, nella sostanza, condividere con voi due posizioni in questo intervento: (1) La prima è quella per cui il movimento del Progetto Intelligente, nel momento stesso in cui evoca un Dio onnipotente e glorioso, un Dio progettista, effettivamente banalizza Dio, Lo rende troppo piccolo e triviale; (2) la seconda è quella per cui la nostra comprensione scientifica dell’Universo, non contagiata da considerazioni di carattere religioso, fornisce per coloro che credono in Dio una meravigliosa opportunità di riflettere sulle proprie convinzioni. Vi prego, per favore, di aver cura di notare che io sto affermando, e vorrei continuare a farlo nella mia presentazione, che la scienza e la religione sono due attività di ricerca umane completamente separate. La scienza è completamente neutrale rispetto alle implicazioni teistiche o ateistiche che potrebbero essere tratte dai risultati scientifici .
Forse sarà solo una coincidenza, ma il nuovo Papa non ha corroborato né Poupard né Coyne nelle loro rispettive posizioni. In generale, il nuovo corso aperto da Schönborn ha trovato molti supporter, soprattutto tra i media europei di destra . A questo punto, l’idea che la scienza debba necessariamente tornare a riferirsi alla fede come il proprio metro di misura ha definitivamente fatto il proprio ritorno sullo scenario culturale europeo. Bellarmino è tornato.
IV. Nel 2006, Papa Benedetto XVI e il cardinal Schönborn decisero di pubblicare gli atti di un workshop privato, tenutosi nel settembre di quello stesso anno a Castelgandolfo, nei pressi di Roma (oltre a Ratzinger e Schönborn, anche alcuni dei più anziani studenti del Papa parteciparono al convegno). Il soggetto del seminario era la relazione tra la fede cristiana e la teoria dell’evoluzione . Nonostante la presenza di uno dei più importanti evoluzionisti di lingua e cultura tedesca, — il presidente dell’Accademia Austriaca delle Scienze, Peter Schuster — gli atti del seminario privato di Castelgandolfo si rivelarono senza ambiguità alcuna favorevoli a una forma di neo-creazionismo. Ratzinger, in particolare, accettò ufficialmente la posizione difesa da Schönborn nell’articolo uscito sul New York Times dello stesso cardinale. Il nuovo Papa, assai diversamente dal suo predecessore polacco, affermò che la «teoria dell’evoluzione (Evolutionslehre) non è ancora una teoria completa scientificamente verificata (komplette, wissenschaftlich verifizierte Theorie)». Di più: quella teoria «in gran parte non è affatto dimostrabile, (nachweisbar), per via sperimentale semplicemente perché noi non possiamo riprodurre in laboratorio 10.000 generazioni. Il che significa che ci sono delle rilevanti lacune (erhebliche Lucken) nella verificabilità e nella falsificabilità sperimentale a causa dello sterminato periodo di tempo cui la teoria fa riferimento ».
In quegli atti Schönborn, — incoraggiato, presumibilmente, dall’esplicita approvazione del Papa — per la prima volta appoggiò apertamente l’intera panoplia dei cosiddetti “argomenti scientifici” tradizionalmente portati in campo dai difensori del Progetto Intelligente. Come è noto, secondo quella prospettiva, il neo-darwinismo è considerato un’ideologia più che autentica scienza, dal momento che, si presume, esso non può rispondere ad alcune obiezioni esiziali. Queste ultime includono i cosiddetti missing links
«le numerose e mancanti forme intermedie fra le specie, che anche dopo 150 anni di intense ricerche semplicemente non esistono»; «il fatto, spesso ammesso, che finora non è mai stata realmente dimostrata neppure un’unica forma di evoluzione da una specie all’altra »; la complessità di numerose strutture biologiche che non possono essere spiegate facendo riferimento a un numero indefinito di mutazioni di minima entità. Inoltre, secondo gli atti del workshop di Castelgandolfo, il fatto che il cosiddetto “evoluzionismo ideologico” (vale a dire, la teoria dell’evoluzione così com’è accettata dall’intera comunità scientifica) sia già stato «l’orpello scientifico sia del comunismo che del nazionalsocialismo, e che oggi lo sia del social-darwinismo economico». In breve, tutte le recenti ideologie più distruttive deriverebbero dalla teoria darwiniana dell’evoluzione.
In questo modo, i punti di vista oggi difesi dalle più alte gerarchie della Chiesa Cattolica Romana sostanzialmente vanno a coincidere con quelli presentati dai difensori del Progetto Intelligente. Si ha, dunque, un’esplicita ed officiale versione cattolica del neocreazionismo – vale a dire qualcosa senza alcun precedente nella cultura europea. Allo stesso tempo, anche in alcuni paesi europei a maggioranza non cattolica si sta facendo esperienza di alcune prese di posizione creazioniste (lo scontro tra evoluzionismo e creazionismo, per esempio, ha raggiunto recentemente i paesi dell’orbita ortodossa, provocando dibattiti pubblici infuocati). Nel 2007, il rapido emergere di movimenti creazionisti in tutta Europa ha prodotto una replica ufficiale di sapore critico da parte del Consiglio d’Europa, in un documento intitolato I Pericoli del Creazionismo nell’Educazione. In questo documento la Commissione Europea per la Cultura, la Scienza e l’Educazione hanno stabilito che l’insegnamento del creazionismo nelle scuole non può essere considerato come un’espressione della libertà di insegnamento, ma solo come una forma di fondamentalismo religioso, che minaccia sia la libertà scientifica che quella di insegnamento.
V. Le conseguenze politiche di questo nuovo atteggiamento appaiono adesso evidenti, soprattutto in Italia – un paese nel quale l’influenza politica e sociale del Vaticano è ancora particolarmente potente. Un chiaro esempio in questo senso venne offerto nel Marzo del 2004, quando ormai il pontificato di Woityla era agli sgoccioli e i movimenti teo-con cominciarono ad emergere in tutta Europa. In quell’anno il ministro italiano dell’Istruzione Letizia Moratti, un membro della coalizione di destra, annunciò alcuni importanti cambiamenti nel curriculum del sistema educativo pubblico italiano. Questi cambiamenti includevano la cancellazione, senza alcun pubblico dibattito, di tutti quei passaggi che, nel vecchio curriculum della scuola secondaria, concernessero l’insegnamento della teoria dell’evoluzione. La decisione provocò forti proteste da parte della comunità scientifica italiana e alla fine il ministro Moratti dovette accettare di approvare un comitato scientifico di quattro membri, che aveva lo scopo di trovare una maniera soddisfacente di reintrodurre la teoria dell’evoluzione nel curriculum scolastico.
Questo comitato lavorò molto lentamente, e alla fine dei propri lavori produsse un documento che non venne mai reso pubblico, probabilmente a causa dei contrasti all’interno del comitato. L’infame nome “Darwin”, tuttavia, venne reinserito all’interno del curriculum scolastico, ma all’interno di un contesto di grande reticenza, con il quale ci si riferiva vagamente alla co-evoluzione e all’interazioni «tra biosfera e geosfera». Così, nel 2006, il nuovo ministro della Pubblica Istruzione (un cattolico appartenente alla coalizione di centro-sinistra che aveva appena vinto le elezioni) propose un’ulteriore revisione del curriculum. Il risultato fu che i passaggi riguardanti la storia naturale vennero scritti in un linguaggio ancor più vago e metaforico, e le parole “Darwin”, “evoluzione”, “evoluzione naturale della specie umana” e “selezione naturale” scomparvero tutte assieme. In questo modo, l’Italia è divenuta una sorta di laboratorio per i fondamentalisti religiosi nel mondo occidentale; un laboratorio dove poter fare degli esperimenti finalizzati alla possibilità di manipolare i curricula delle scuole pubbliche, al fine di avanzare la loro agenda fondamentalista.
Gli argomenti portati in campo dai consiglieri del ministro che si batté per la rimozione della teoria dell’evoluzione dal curriculum della scuola pubblica, si basavano su tre assunzioni principali (chiaramente ispirate dalle nuove prospettive della Chiesa riguardanti alla teoria dell’evoluzione). (i) Non esiste una singola teoria dell’evoluzione, ma molte differenti versioni di essa, le quali frequentemente si contraddicono; perciò, le diverse versioni di questa teoria, sono tutte egualmente ipotetiche e congetturali. (ii) La teoria dell’evoluzione richiede una capacità di astrazione e di utilizzo di sofisticati strumenti matematici che sono piuttosto ben al di là della portata degli studenti della scuola superiore; perciò, tale teoria soddisfa il curriculum degli studenti della laurea triennale di primo livello assai meglio del curriculum della scuola superiore. (iii) L’evoluzionismo darwiniano – concepito come una delle molte possibili teorie dell’evoluzione - può facilmente ispirare delle pericolose visioni della realtà materialistiche e ateistiche nelle giovani menti degli studenti.
Si tratta, ovviamente, di argomenti deboli e pretestuosi. Per prima cosa, anche altre teorie scientifiche – paragonabili per complessità e ampiezza di spettro tematico (come ad esempio, la meccanica quantistica) – sono di fatto interpretate in modi radicalmente differenti. Nessuno, tuttavia, pensa seriamente che, per questa ragione, queste teorie non dovrebbero essere considerate come valide e rilevanti. Perché allora dovremmo avere un atteggiamento differente nei confronti della teoria darwiniana dell’evoluzione? In secondo luogo le difficoltà tecniche della teoria dell’evoluzione non dovrebbero essere sovrastimate, e, in generale, non sono poi peggiori delle difficoltà incontrate da altre teorie scientifiche che sono materia di insegnamento nelle scuole (superiori) senza alcuna controversia. Infine, l’idea che noi dovremmo proteggere i nostri studenti dall’esposizione ad una delle più importanti teorie scientifiche dei nostri tempi (a causa della sue presunte cattive conseguenze sulle menti immature degli studenti) sembra provenire direttamente da un romanzo di George Orwell ambientato in qualche società distopica – un romanzo che varrebbe la pena leggere, forse, ma che non certo desidereremmo vedere realizzato nella realtà. Presumibilmente, se un’importante e ben fondata teoria scientifica possiede delle conseguenze problematiche per i punti di vista politici, etici, o religiosi, allora queste conseguenze dovrebbero essere discusse nelle ore di religione o filosofia, senza rimuovere la teoria in questione dal curriculum scientifico (volendo parlare di un caso analogamente controverso, sebbene meno noto, si pensi alle conseguenze altamente problematiche che le teorie deterministiche hanno per le nostre intuizioni riguardo il libero arbitrio e la responsabilità morale).
È sorprendente che questi pseudo-argomenti siano stati presi in così seria considerazione in un paese occidentale culturalmente avanzato (un paese che dovrebbe conservar memoria dei danni derivanti dal contrastare il progresso scientifico). Più in generale, è sorprendente che, stante il tendenziale atteggiamento laico della cultura europea, questo atteggiamento antiscientifico abbia oggi guadagnato attenzione politica e culturale. L’offensiva, in ogni caso, è di quelle potenti, e adesso anche il Papa è ufficialmente parte dell’attacco.
VI. Il punto di vista di Benedetto XVI sulle relazioni tra scienza e fede sono state chiarite anche dal suo libro più recente. Nel 2007, Ratzinger ha pubblicato un volume dedicato alla prima parte della vita di Gesù di Nazaret (il libro in questione copre il periodo della vita di Gesù fino all’episodio evangelico della Trasfigurazione; un secondo volume dovrebbe seguire e trattare il resto della vita di Gesù) . L’aspetto più stupefacente di questo libro concerne la sua metodologia, che potrebbe essere definita come una ermeneutica cristocentrica, un’ermeneutica che presuppone che la lettura cattolica dei vangeli sia quella (l’unica) corretta . In questa prospettiva, il libro mette in discussione il tradizionale metodo storico-critico di indagine (sulle fonti bibliche) e ridimensiona deliberatamente il risultato di decenni di pazienti esegesi empiricamente fondate e di indagini sulle fonti storiche. In una parola, il libro lancia un attacco contro le metodologie standard delle scienze umane.
In modo esplicito, Ratzinger lancia una sfida alla distinzione – condivisa da centinaia di studiosi moderni e contemporanei, di ogni tendenza religiosa – tra il Gesù Cristo trascendente, quello teofanico e quello storico. L’idea di Ratzinger, infatti, è che se non si vuole smarrire le più importanti verità (cristiane), colmare il salto tra il Cristo umano e quello divino non è solo qualcosa di possibile ma è metodologicamente indispensabile.
L’assunzione sottostante alla posizione di Ratzinger è che la fede nella divinità di Cristo debba essere presupposta se si vuole comprendere il reale significato situato al di là dei dati storici (i criteri metodologici che ispirano il libro vengono definiti come richiedenti esplicitamente la fede) .
Monsignor Gianfranco Ravasi, lo stimato e assai erudito nuovo presidente del Pontificium Consilium de Cultura, nonché uno degli intellettuali italiani cattolici di maggior spicco, riassume in modo preciso la metodologia del libro del Papa. Scrive Ravasi,
L’autenticità della figura di Cristo non viene ricavata dal riportare alla luce (carving out) i dati storici verificabili e rinviando alla competenza dei teologi le loro componenti cristologiche, ma dal conservare tutto quanto assieme, nell’unità della persona che è «storicamente ragionevole e convincente», anche se la persona in questione contiene in sé stessa una dimensione trascendente .
La clausola anche se, appena citata nel brano di Ravasi, qui è di importanza cruciale. Lo scopo del libro è fornire un supporto storico alla tesi della divinità di Gesù, secondo la fede cattolica, la quale è presupposta. Il dubbio che sorge immediatamente è cosa possa accadere nel caso in cui sorga un conflitto tra la fede e i ritrovamenti storici – il quale, a questo proposito, è esattamente il tema che oppose Galileo a Bellarmino. Come un autorevole critico cattolico ha scritto con tono polemico
Nel Gesù di Ratzinger… la somma dei testi e delle storie possiedono un solo significato, che èperfettamente identico alla fede espressa dal credo (cattolico) e che è perfettamente rappresentato dalla Chiesa .
Una conseguenza di questo approccio è che, dal momento che la fede giustifica perfettamente chiunque nel credere che il Symbolon (cioè il credo) cattolico è vero, i dati e le teorie storici e storiografiche possono solo confermare quel Symbolon. In questa prospettiva, mentre l’opinione storica è ovviamente fallibile, la credenza religiosa non lo è. Perciò, quando sussiste un conflitto, è la prima delle due convinzioni che dovrebbe essere abbandonata. Una conseguenza correlabile a questo approccio è che condividere la propria fede con il Papa diverrebbe una condizione necessaria (se non addirittura sufficiente) per comprendere il Gesù storico. La prevalenza della fede religiosa sulla credenza scientifica è una caratteristica fondamentale della nuova metodologia cristologia di Ratzinger.
Diverse voci critiche si sono immediatamente levate contro la metodologia di questo libro all’interno del mondo cattolico. Un caso interessante è quello rappresentato dall’assai influente cardinale Carlo Maria Martini, un gesuita considerato il front-runner del partito più progressista nel mondo cattolico, il quale ha pubblicamente commentato il libro del Papa in un meeting organizzato dall’UNESCO a Parigi .
Ad una prima lettura, la valutazione di Martini del libro del Papa può suonare positiva, e forse addirittura molto positiva – il Cardinale, ad esempio, conclude le sue osservazioni auspicando che gli altri lettori possano provare la stessa gioia che egli afferma di aver provato nel leggere il libro. Molti interpreti, tuttavia, hanno letto i commenti di Martini come critici, ironici nonché condiscendenti. Uno di questi interpreti è lo scrittore e giornalista Vittorio Messori, un entusiasta sostenitore di Papa Ratzinger, il quale ha pubblicato un articolo sul più autorevole quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, per attaccare la presunta ipocrisia di Martini .
Secondo Messori, i commenti di Martini sul libro del Papa non sarebbero altro che un esempio della proverbiale ambiguità gesuita. Nella sua lettura dei commenti, Martini, sebbene lodasse ufficialmente il libro, infatti, avrebbe in realtà celato l’intenzione di rimuovere il libro di Ratzinger dalle teche delle esegesi bibliche a «quelle contenenti testi di spiritualità, di riflessioni edificanti, di testimonianza personale ».
La lettura di Messori, sebbene parta da una prospettiva niente affatto simpatetica con Martini, sembrerebbe segnare un punto a proprio favore. Per quanto riguarda la competenza accademica di Ratzinger, per esempio, Martini scrive che «Ratzinger non è un biblista, ma un teologo, e – anche se mostra della competenza riguardo alla letteratura esegetica del suo tempo – egli non ha non compiuto lo studio di tipo primario, per esempio su testi critici del Nuovo Testamento ». Secondo Messori, in questo punto, il Papa verrebbe maliziosamente descritto da Martini come competente solo per quel che riguarda la letteratura esegetica del « suo tempo» (che potremmo datare fino al 1977, cioè fino a quando egli esercitò come professore universitario), e perciò come incompetente rispetto gli sviluppi successivi di questo campo di ricerca .
Comunque stiano le cose, Martini, nel suo commento, svolge anche degli espliciti rilievi critici sul libro. Il cardinale sottolinea, ad esempio, che il Papa avrebbe scritto (erroneamente) che il quarto Vangelo è stato scritto da Giovanni Zebedeo (che, a questo proposito, non è proprio un piccolo errore, trattandosi, semmai di Giovanni Apostolo figlio di Zebedeo), e che sempre il Papa avrebbe tradotto erroneamente diversi termini biblici cruciali.
Riassumendo, sembra plausibile che, anche se in un modo prudente – gesuitico – il cardinal Martini abbia voluto alludere a quanto potesse essere distante la propria impostazione metodologica dal nuovo genere di ermeneutica bellarminiana difesa dal Papa. Ciò che appare indubitabile, in definitiva, è che la posizione per cui la storia può tutt’al più confermare quel che la fede (già) ci dice sicuramente suona assai fortemente come una vendetta delle posizioni di Bellarmino contro quelle di Galileo.
VII. Il 30 Novembre 2007, quando l’ultima bozza in via di preparazione di questo articolo era già pronta, venne pubblicata un nuova lettera enciclica di Papa Benedetto XVI intitolata Spe salvi (“salvati nella Speranza”) . L’enciclica copriva diversi temi – alcuni dei quali non particolarmente all’ultimo grido, come la reale esistenza del Purgatorio e il problema di chi sarà salvato nel Giudizio Finale. Una parte importante di questa enciclica, tuttavia, tratta di alcuni temi riguardanti il problema di come la fede possa correlarsi alla scienza e alla ragione. Ci è sembrato utile, così, terminare questo articolo con qualche breve osservazione su questa enciclica.
La prima tesi dell’enciclica è che la fede religiosa, nel suo donarci una speranza, è indispensabile per la fioritura dell’umana ragione. Il Papa scrive:
Diciamolo ora in modo molto semplice: l'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza. Per questo la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l'una dell'altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione (§ 23).
Secondo Ratzinger, così, solo la fede religiosa può offrire la speranza che “redime l’uomo”. Più in particolare, una tale speranza può essere trovata solo nella Cristianità, dal momento che Gesù Cristo è il Solo ad averci “redenti” (§26). Ora, non è questo il luogo più adatto per discutere diverse tematiche così controverse sollevate da questa posizione (per esempio: perché mai, solo la credenza religiosa dovrebbe essere in grado di donare speranza agli esseri umani? E perché mai, all’interno di tale novero, solo e soltanto la credenza cristiana?). Quel che è direttamente rilevante per noi, tuttavia, è che l’interpretazione che l’encliclica offre della storia intellettuale dell’Età Moderna, una lettura che può essere vista come un ritorno del nuovo corso bellarminiano di questo papato. Una delle tesi principali di Spe salvi è che nella modernità, la ragione si è distaccata dalla fede religiosa, nel suo arrogante tentativo di raggiungere un «regno di Dio realizzato senza Dio – un regno quindi dell'uomo solo». Un simile tentativo, tuttavia, «si risolve inevitabilmente nella “fine perversa” di tutte le cose» (§23). Perciò, come è stato detto, solo una nuova alleanza tra ragione e fede cristiana può dare agli esseri umani la speranza che può salvarli, secondo quanto è detto nel versetto di San Paolo Spe salvi facti sumus («siamo stati salvati nella speranza», Lettera ai Romani Cap. 8, v. 24). Secondo l’enciclica un pensatore di importanza cruciale per il compimento del divorzio tra fede e ragione, fu Francis Bacon, che nell’enciclica viene interpretato come l’ideologo di una totale secolarizzazione della vita (moderna). Secondo il Papa, per Bacon, la fede nel progresso scientifico, e nella possibilità di un dominio tecnologico sulla natura, rese la religione irrilevante per le nostre esistenze. Alla luce di ciò
La restaurazione del «paradiso» perduto, non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. Non è che la fede, con ciò, venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo. […] Durante l'ulteriore sviluppo dell'ideologia del progresso, la gioia per gli avanzamenti visibili delle potenzialità umane rimane una costante conferma della fede nel progresso come tale (§17).
Questa, tuttavia, è una lettura piuttosto superficiale dell’opera di Francis Bacon . Per esempio, Bacon, semplicemente non credeva che la sola scienza potesse restaurare il Paradiso perduto. Per comprenderlo è sufficiente leggere l’ultimo paragrafo del Novum Organum (il 52), dove Bacon scrive
L’uomo a causa della caduta (del peccato originale) è decaduto sia dal suo stato di innocenza sia da quello del proprio dominio sulla creazione. Ambedue queste cadute possono, tuttavia, anche in questa vita essere riparate in qualche parte; la prima dalla religione e dalla fede, la seconda dalle scienze e dalla tecnica (corsivi nostri).
Secondo Bacon, perciò, gli esseri umani possono recuperare la propria innocenza originaria e il proprio originario stato di dominio sul mondo naturale solo in qualche parte o misura (nonnulla ex parte). Inoltre, la scienza, è un puro supplemento, nel raggiungimento di questo scopo; la scienza può solamente costruire sui fondamenti della credenza religiosa, la quale è e resta indispensabile. A partire da questo, come si potrebbe mai ragionevolmente affermare che Bacon non abbia lasciato alcuno spazio per la religione e che egli abbia ritenuto che, per mezzo della scienza, l’uomo potesse ottenere un completo controllo sul mondo umano? Bacon distingue attentamente gli scopi prudenti della scienza, la quale deve rispettare la giurisdizione della religione, dall’empia hybris della magia.
Così, per esempio, nella Prefazione all’Instauratio Magna Bacon scrive,
Prego umilmente, affinché le umane questioni non interferiscano con quelle divine, e che dall’apertura dei sentieri dell’intelligenza e dall’aumento del lume naturale della conoscenza non possa erigersi nelle nostre menti alcuna incredulità nei confronti dei divini misteri; ma piuttosto che venendo l’intelletto in questo modo purificato e purgato da stoltezza e vanità, e non di meno soggetto e completamente sottomesso ai divini oracoli, possa essere dato alla fede quel che è proprio della fede. Infine, essendo la conoscenza da questo momento in poi affrancata da quel veleno che il serpente antico inoculò in essa e che rende gonfia la mente dell’uomo, che si possa essere saggi oltre misura e sobrietà, e che si possa coltivare la verità nella carità.
Spe salvi discute anche a lungo dei proemi causati dal “mito del progresso”, che si diffuse in Europa agli inizi dell’Illuminismo. Nell’interpretazione del Papa (assai probabilmente influenzata dalla Dialettica dell’Illuminismo di Adorno ed Horkheimer), Ratzinger identifica lo spirito della modernità con una fede cieca nell’idea che il progresso della conoscenza scientifica, interpretato come necessariamente incompatibile con la vera fede religiosa, porterà con sé dei progressi morali ed umani spettacolari e produrrà, infine, una comunità umana perfetta. Per citare le parole del Papa:
La novità – secondo la visione di Bacone – sta in una nuova correlazione tra scienza e prassi. Ciò viene poi applicato anche teologicamente: questa nuova correlazione tra scienza e prassi significherebbe che il dominio sulla creazione, dato all'uomo da Dio e perso nel peccato originale, verrebbe ristabilito (§16)[…]. Ora questa «redenzione», la restaurazione del «paradiso» perduto, non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. (§17) […]Il progresso è il superamento di tutte le dipendenze – è progresso verso la libertà perfetta. […] Ragione e libertà sembrano garantire da sé, in virtù della loro intrinseca bontà, una nuova comunità umana perfetta. In ambedue i concetti-chiave di «ragione» e «libertà», però, il pensiero tacitamente va sempre anche al contrasto con i vincoli della fede e della Chiesa, come pure con i vincoli degli ordinamenti statali di allora (§18).
Anche su questo tema, tuttavia, la lettura del Papa sembra essere piuttosto non approfondita. Sebbene un’ ingenua fede nel progresso possa essere colta negli scritti di Condorcet, Saint-Simon o di Comte, questa fede fu lungi dall’essere universalmente condivisa; e, di fatto, persino alcuni tra i principali filosofi dell’Illuminismo la rifiutarono;- come ogni lettore del Candide o dell’Emilio di Rousseau o del saggio di Hume, Idea of a Perfect Commonwealth potrebbero facilmente riconoscere. In definitiva, dopo la Prima Guerra Mondiale, il cosiddetto mito del progresso, che faceva ingenuamente corrispondere il progresso scientifico al progresso umano, venne estremamente marginalizzato nella filosofia. Oggi, sebbene vi siano filosofi orientati in senso naturalistico che risultano essere molto ottimisti nei confronti del potenziale epistemico delle scienze naturali (il che è come dire che sono convinti che, in potenza, tutta la conoscenza sia scientifica), nemmeno uno di questi autori afferma che il progresso scientifico generi ipso facto progresso umano. Inoltre, altri filosofi, di orientamento moderatamente naturalistico, difendono la centralità della scienza nella nostra cultura, ma sono anche molto prudenti nel definire in modo esplicito i limiti della scienza stessa, in un modo che certamente non si conforma alla descrizione della secolarizzata filosofia contemporanea fornita dal Papa .
Alla luce di questa enciclica, così, non possiamo vedere come il progetto del nuovo pontificato di mettere la scienza sotto il protettorato della religione sia ancor oggi fondato su di un’infelice presentazione della scienza e della filosofia secolarizzata – di quel che tali discipline sono state realmente e di quel che esse sono realmente ora. Di fatto, come un famoso filosofo naturalista contemporaneo, Philip Kitcher, ha scritto una volta, se qualcuno adottasse una comprensione appropriata della relazione tra scienza e religione, non vi sarebbe alcuna ragione per vedere la scienza come un attacco alla religione considerata in generale, né, in particolare, alla religione cristiana.
L’evidenza scientifica parla decisamente contro la lettura letterale del libro della Genesi. Ma questo fatto non significa che la fede religiosa sia, in questo modo, confutata. Né questo fatto potrebbe perturbare nessuno tra coloro che credono, seguendo la tradizione di Tertulliano e Kierkegaard, che la fede può e dovrebbe trascendere il peso di ogni eventuale scoperta scientifica .
Kitcher ha presentato una versione dell’antica tradizione che, da Galileo all’ultimo Stephen J. Gould, vede la scienza e la filosofia come due pratiche che, sebbene autonome l’una dall’altra, sono perfettamente legittimate ognuna nel proprio, rispettivo, campo di ricerca. Il nuovo progetto bellarminiano di porre la scienza sotto la sorveglianza della fede, di contro, appartiene ad una tradizione completamente diversa – una tradizione che solo pochi anni fa sembrava essere definitivamente caduta nel dimenticatoio all’interno del mondo cattolico. È, tuttavia, assai discutibile che noi si debba dare un benvenuto alla sua rinascita.
(traduzione dall'inglese di Stefano Vaselli)