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Dan Sperber è nello stesso tempo uno dei più noti scienziati cognitivi e uno dei più influenti antropologi della scena culturale attuale. Questa circostanza lo rende una persona particolarmente interessante per discutere dell’influenza che i processi mentali e i rapporti sociali esercitano gli uni sugli altri. Inoltre, nella carriera intellettuale di Sperber un tema così astratto e teorico ha preso la forma di un autentico percorso di vita. Così ho pensato di iniziare l’intervista proprio chiedendogli di raccontare il suo originale cammino intellettuale. Perconti: Cosa ti ha attratto, all’inizio della carriera, nelle scienze sociali e cosa ti ha successivamente condotto verso le scienze cognitive? Dan Sperber: Alla base sia dell’interesse che ho coltivato da più tempo verso le scienze sociali sia di quello più recente rivolto verso le scienze cognitive ci sono motivazioni legate alla sfera politica. Quando ero ancora uno studente, ero impegnato come militante nel movimento anticolonialista, mi opponevo alla guerra che in quel periodo i Francesi stavano conducendo in Algeria. Mi animava la solidarietà verso i movimenti nazionalisti algerini. Sono stato un militante politico giovanissimo: si può dire che a vent’anni ero già un militante vecchio. Sono stato anche uno dei fondatori dei comitati francesi anti-apartheid. Ma ben presto l’attività quasi professionale di militante politico mi ha lasciato deluso. Già nel 1962, alla fine della guerra in Algeria, mi era chiaro che quel movimento di indipendenza, che si presentava anche in termini di difesa dei valori universali, in realtà aveva un indirizzo nazionalista molto significativo. Fu ben presto chiaro che liberare l’Algeria dal potere francese non era l’inizio di un movimento rivoluzionario che avrebbe interessato il mondo intero. Così, sentendo il bisogno di comprendere meglio le culture dei Paesi africani per guidare meglio l’azione politica, ho iniziato a studiare le scienze sociali e l’antropologia. P.: E’ stato in questo periodo che hai studiato con Claude Lévi-Strauss? S.: Sì, ho seguito dei suoi seminari a Parigi. Per la verità ero un po’ scettico nei confronti di Lévi-Strauss perché avevo una impostazione marxista che confliggeva con alcune sue posizioni. Comunque allora Lévi-Strauss era la figura intellettualmente più interessante dell’antropologia francese, in grado di attirare verso tale disciplina tanti giovani studenti che altrimenti si sarebbero probabilmente dedicati alla filosofia o alle altre scienze sociali. Grazie all’influenza di Lévi-Strauss ho iniziato a coltivare due interessi che in seguito sono stati molto importanti per me. Innanzi tutto mi sono dedicato agli studi linguistici, interessandomi al pensiero di Ferdinand de Saussure e di un allora giovane Noam Chomsky. È stata proprio la lettura di Chomsky che ha iniziato a rendermi insoddisfatto nei confronti dello strutturalismo, che allora era la tendenza dominante nelle scienze umane. Era l’idea stessa che la linguistica potesse fornire un modello esportabile verso le altre discipline che Chomsky aveva messo in discussione. La linguistica chomskyana è un programma di ricerca che considera il linguaggio come un sistema specifico per dominio. Così ho riflettuto sulla relazione tra il linguaggio e i fenomeni culturali e ho diretto la mia attenzione verso le scienze cognitive. P.: Chomsky è stato quindi cruciale nel determinare l’interesse verso le scienze cognitive. S.: Sì, è così. L’influenza del movimento del Sessantotto ha fatto il resto. Ho ripensato una idea di fondo del marxismo, ossia l’idea del socialismo scientifico, secondo cui un’azione politica basata su una conoscenza fondamentalmente giusta e profonda dei meccanismi sociali dovrebbe necessariamente produrre degli esiti emancipatori. Il fatto è che man mano che si studiano le scienze sociali ci si rende conto che una conoscenza di questo tipo semplicemente non esiste. Nessun tipo di conoscenza è in grado di guidare un Paese verso una politica di lungo termine basata su risultati scientifici. Nel marxismo c’è un residuo di scientismo che è superato dai tempi e che si è infine rivelato del tutto insoddisfacente. Ma anche i movimenti radicali che si sono basati su conoscenze scientifiche piuttosto sofisticate in genere hanno sortito effetti diversi da quelli che erano stati anticipati dai rivoluzionari, in molti casi effetti addirittura contrari ai valori della giustizia sociale e della libertà. Oggi è difficile immaginare come lo sviluppo delle scienze sociali in senso scientifico possa rendere efficace l’azione di governo di una nazione. Tuttavia, l’idea di sviluppare le scienze sociali in modo più scientifico possibile per guidare la propria azione politica non va abbandonata del tutto. Le conoscenze scientifiche possono essere una bussola efficace per quelle azioni pubbliche che sono rivolte verso cambiamenti riformistici nel breve periodo. Ma quando si coltivano speranze di trasformazione radicale della società, allora bisogna ammettere che la comprensione del mondo non consente di discriminare tra le azioni giuste e quelle che non lo sono. Così, benché mi sia inizialmente rivolto alle scienze sociali per alimentare la mia azione politica rivoluzionaria, la consapevolezza che la conoscenza scientifica è inefficace per guidare una impresa politica radicale mi ha anche dissuaso dall’intraprendere la carriera del rivoluzionario professionista. La mia scelta è quindi caduta su una strada scientifica classica, volta a ripensare i fondamenti delle scienze sociali e a considerare fino a che punto è possibile sviluppare un approccio veramente scientifico alla comprensione delle strutture sociali. Così facendo sono stato coinvolto in numerosi problemi interni alle scienze sociali e sono infine diventato uno scienziato sociale io stesso. P.: Ritieni che il modello di ricerca praticato all’interno delle scienze cognitive conduca verso una particolare opzione politica? Secondo alcuni studiosi le scienze cognitive, a motivo della loro assunzione dell’individualismo e del solipsismo metodologico, rifletterebbero in modo non critico il sistema di produzione occidentale. S.: Siamo fortunati che Noam Chomsky, ossia il padre della rivoluzione cognitiva, sia un intellettuale della sinistra radicale. Questo rende evidente che essere cognitivisti non comporta alcun impegno a favore del liberismo capitalistico. L’idea che il cognitivismo rifletta una visione capitalistica della società è basata su un atteggiamento ideologico tipico di molta parte delle scienze sociali. Da tale atteggiamento deriva il ricorso ad argomenti di “sospetto ideologico”, come quello relativo alle scienze cognitive. P.: Nella tua analisi convivono due approcci che all’apparenza sono abbastanza distanti: le scienze sociali e le scienze cognitive. Mentre le prime sono dedicate a fenomeni pubblici e osservabili come i riti e i sistemi di parentela, le seconde hanno a che fare con stati interni e rappresentazioni mentali che sembrano aver le caratteristiche della soggettività e della privatezza. Com’è possibile tenere insieme due prospettive così diverse? D.: Vorrei mettere in questione le premesse della tua domanda. Le scienze sociali si occupano di aspetti “pubblici”, è vero, ma che si tratti anche di fenomeni “osservabili” è una questione differente. Prendiamo in considerazione la religione, che è fatta di credenze e di rappresentazioni, ossia di caratteristici fenomeni mentali. È vero che tutto ciò che è possibile osservare nei fenomeni sociali è il comportamento, ma occorre anche considerare che i comportamenti sono cose percepite dagli agenti sociali. Gli studiosi sono soliti notare che è possibile prendere due comportamenti apparentemente uguali, ossia suscettibili della stessa descrizione fisica, e notare tuttavia come per le persone potrebbe benissimo non trattarsi dello stesso fenomeno. L’esempio classico, che risale al filosofo Gilbert Ryle ed è stato usato anche dall’antropologo Clifford Geertz, riguarda il fenomeno dell’occhiolino. Il movimento fisico dell’occhiolino può essere compiuto involontariamente perché qualcosa è entrato nell’occhio e ci disturba oppure può essere eseguito come un atto sociale volto a comunicare con un’altra persona il desiderio di stabilire un rapporto di complicità. Lo stesso movimento, d’altronde, può essere eseguito per finta, per indicare la possibilità scherzosa di una complicità che in quel momento in effetti è inesistente. Per esempio, si potrebbe vedere una persona fare l’occhiolino a un altro per far ridere di lui; in un caso di questo tipo l’occhiolino sarebbe esplicitamente finto agli occhi di tutti gli osservatori. Lo stesso movimento può avere quindi tre interpretazioni completamente diverse. Dunque, che cosa vuol dire che un evento è osservabile? Nel caso del movimento involontario non siamo di fronte ad un fenomeno sociale, mentre l’occhiolino e il finto occhiolino sono eventi sociali con caratteristiche diverse che dipendono precisamente dall’interpretazione dell’agente sociale. L’interpretazione, in sé, non è un fenomeno osservabile. O si suppone che gli stati interpretativi dell’agente siano stati mentali, quindi stati inosservabili, o si ritiene che si tratti di rappresentazioni collettive e culturali dotate di caratteristiche diverse dalle rappresentazioni mentali. In questo caso bisognerebbe essere in grado di dire quali caratteristiche fisiche esse hanno. Durante il periodo in cui in psicologia imperava il comportamentismo gli studiosi coltivavano il mito dell’osservabilità e studiavano soltanto fenomeni osservabili, come gli stimoli e le risposte. Era una strana psicologia senza mente, in cui però sono state affinate una serie di tecniche di indagine impiegate successivamente con successo anche nella psicologia cognitiva. Dopo Turing sappiamo che la materia può pensare. Anche prima si poteva ritenere che il pensiero fosse qualcosa di materiale, ma allora nessuno sapeva spiegare come di fatto tutto ciò potesse accadere. Ora, con lo sviluppo delle neuroscienze, sappiamo non solo che la materia può pensare, ma iniziamo a conoscere come di fatto pensa. In questo è consistito il nocciolo della rivoluzione cognitiva. Per tornare al tema della tua domanda, sembra quindi che la caratteristica dell’osservabilità non sia il marchio di fabbrica delle scienze sociali, in confronto alle scienze cognitive. La psicologia delle scienze sociali non è individualista né soggettivista. Sta studiando i fenomeni a un livello subpersonale e infraindividuale, badando ai meccanismi che occorrono dentro di noi ma che non siamo in grado di controllare. Nella visione cognitivistica gli esseri umani sono il risultato di tanti meccanismi autonomi che insieme spiegano il comportamento degli individui. La scienza cognitiva, tuttavia, non è ancora abbastanza sviluppata per svolgere tale compito in modo soddisfacente. Inoltre, essa si scontra con l’idea del senso comune secondo cui noi avremmo un controllo totale di noi stessi. La ragione profonda che mi ha spinto a mettere insieme le scienze cognitive e le scienze sociali ha a che fare col materialismo, ossia con il tentativo di radicare la comprensione del mondo sociale nel resto del mondo materiale. Ancora non disponiamo di una compiuta spiegazione materialistica della mente. Però, potremmo dire parafrasando Chomsky, ciò che prima era un mistero adesso ha le sembianze di un semplice problema. Purtroppo, non c’è stata una rivoluzione paragonabile nelle scienze sociali. Benché si possa naturalmente sostenere che nella vita sociale tutto abbia una base materiale, di fatto non siamo ancora in grado di comprendere le catene causali che danno vita alla realtà sociale. Nel mio tentativo di ricondurre questi misteri delle scienze sociali a normali problemi scientifici approfitto della rivoluzione naturalistica avvenuta nelle scienze della mente. P.: La possibilità di considerare in modo naturalistico la cultura è un’idea che oggi affascina molti intellettuali. Numerosi tentativi di questo tipo muovono dalla biologia e dalle scienze della natura in genere. Pensa al caso di Richard Dawkins o a quello di Luigi Luca Cavalli Sforza, oppure alla teoria dei memi. Sono tutti tentativi di considerare il mutamento culturale in modo analogo al cambiamento biologico. Il tuo approccio teorico è analogo a quelli appena menzionati? D.: Ci sono numerosi approcci darwiniani che cercano di spiegare i fenomeni culturali usando come modello la teoria della selezione naturale. Ma c’è una differenza radicale tra gli approcci di tipo sociobiologico e gli approcci di Dawkins e Cavalli Sforza. I sociobiologi ritengono che la cultura sia un’estensione dell’ambito biologico. Ci sarebbe una selezione sia dei tratti fisici dell’organismo sia dei tratti comportamentali. La variabilità ambientale farebbe parte di un programma biologico. Si tratta di un approccio che è stato molto criticato. Sfortunatamente non c’è modo di spiegare la diversità del comportamento umano partendo dalle opzioni determinate dai geni e dalla loro attivazione nei diversi contesti locali. Questa idea si è rivelata sbagliata. P: Secondo Jonathan Marks (“Che cosa significa essere scimpanzé al 98%”, Milano, Feltrinelli) è l’idea stessa di “genetica comportamentale” che è sbagliata. D.: Presa in sé l’idea di una genetica comportamentale non è affatto sbagliata. È possibile studiare gli aspetti di basso livello del comportamento riconducendolo alle sue basi biologiche. Il fatto che si suda quando fa caldo è un comportamento che ha una precisa base biologica. Il fatto che il fenotipo sia determinato dal genotipo non mi turba per niente. D’altra parte, più i comportamenti sono diversi e complessi, più dipendono dalla storia e dalla società. L’altro tipo di approccio al rapporto tra mutamento culturale e biologico, quello di Dawkins e Cavalli Sforza, mi sembra più che altro far uso di un’analogia. La cultura non è vista come l’estensione dell’evoluzione biologica ma come un’altra storia evolutiva, radicalmente autonoma, resa possibile dal fatto che l’essere umano ha il cervello che ha. Magari l’evoluzione culturale prende una forma darwiniana perché i tratti culturali, come per esempio i memi di Dawkins, sono in competizione gli uni con gli altri come lo sono i geni. L’emergenza di una novità segue processi paragonabili ai mutamenti biologici. I tratti che hanno più possibilità di diffondersi e di replicarsi sono anche quelli che hanno un maggiore successo culturale. L’evoluzione costante e la sempre maggiore complessità della cultura e della vita sociale provengono da un processo di tipo darwiniano ma nello stesso tempo autonomo dalla semplice trasmissione genetica. Questo approccio sembra più interessante e più corretto di quello della sociobiologia. Ma c’è un punto su cui occorre riflettere. Se badiamo ai processi di trasmissione culturale, spesso consistenti in eventi comunicativi e imitativi, emerge chiaramente come nella molteplicità di modi in cui gli esseri umani si influenzano gli uni con gli altri non si producano affatto copie o repliche. Nel momento in cui io sto parlando adesso con te, nella tua mente non si produce alcuna copia di quello sto dicendo. Se sei interessato al discorso è probabile che prenderai qualcosa di ciò che sto sforzandomi di dire e che svilupperai così pensieri tuoi, pensieri che sono pertinenti per te, che magari sono stati ispirati da opinioni contrarie rispetto alle tue. Se imiti un comportamento, per esempio se vedi una persona fare molto bene una cosa che tu non sei in grado di fare altrettanto bene, potresti imparare dall’altra persona. Ma il tuo scopo non è fare come l’altro; si tratta piuttosto di riuscire a realizzare la tua intenzione. I micromeccanismi della trasmissione culturale, dell’imitazione e della comunicazione non sono abbastanza fedeli per essere veramente paragonabili alla replicazione del DNA. Del resto, non è solo un problema di livello di fedeltà. Non è in discussione che la trasmissione culturale sia meno fedele della trasmissione genetica. Il problema sta nel diverso rapporto che esiste nella trasmissione genetica e in quella culturale tra il livello di mutazione, i microeventi di trasmissione, e la forza della selezione. Maggiore è la forza della selezione, maggiore è anche il livello di mutazione. Di fronte alle mutazioni che ogni volta hanno luogo nel caso degli esseri umani non può esserci una forza di selezione sufficiente per compensare questo tasso di mutazione. In effetti non è neppure corretto parlare di “mutazione”, dal momento che i nostri meccanismi di trasmissione non sono tanto meccanismi di replicazione quanto, da un lato, processi preservativi, ossia procedure di estrazione delle informazioni, e d’altra parte processi costitutivi. P: Come è possibile spiegare il fenomeno della stabilità culturale in questo quadro teorico? S.: Se siamo interessati a spiegare fenomeni culturali come la religione, l’ideologia, la cucina e i racconti popolari, in effetti è assolutamente necessario render conto della stabilità culturale delle popolazioni. Occorre spiegare come la trasmissione culturale sia abbastanza regolare da consentire la condivisione delle parole delle lingue, dei racconti popolari, delle idee politiche, dei valori morali e dei gusti estetici. Secondo me i processi di replicazione che sono stati individuati finora non sono sufficienti a spiegare questa stabilità. Sia l’approccio di Dawkins sia quello biologico hanno una visione superficiale dei processi mentali umani. Ritenere che la nostra capacità di imitazione (Dawkins, tra l’altro, parla soltanto di imitazione e non bada al fenomeno della comunicazione) costituisca un un processo di replicazione sufficiente per spiegare la stabilità vuol dire avere una visione superficiale della psicologia. È chiaro che ci sono altri fattori che giocano un ruolo significativo nella vita sociale e nella trasmissione culturale, tra cui l’inferenza, la memoria e l’immaginazione. Il caso di Dawkins è una caso di una teoria quasi senza psicologia, mentre quello di Cavalli Sforza ha un livello molto basso di psicologia. Ritengo che il paradosso della relativa stabilità culturale senza microtrasmissione fedele sia spiegabile solo se si guarda in modo molto più ricco la psicologia umana. L’idea di trasformazione casuale che può avvenire in una mutazione genetica può riguardare un mutamento qualunque, mentre quelle in atto nella trasmissione culturale possono volgere in qualsiasi direzione. Ma la trasformazione culturale può essere orientata dalle menti degli individui. Spesso nelle pratiche culturali tali trasformazioni si cancellano le une con le altre perché convergono verso una stessa direzione. Prendiamo il caso del racconto popolare di Cappuccetto Rosso. Non è mai raccontato con le stesse parole, spesso le persone dimenticano un episodio o cercano di introdurre un dettaglio di più. Però in generale i ruoli sono raccontati in modo corretto e tutte le piccole modificazioni si elidono le une con le altre. Per comprendere come le piccole modificazioni tendono a eliminarsi le une con le altre non bastano i microprocessi di replicazione: occorre rivolgersi ai processi mentali che sono coinvolti nel processo. P.: Talvolta anche tu hai usato metafore biologiche per spiegare i fenomeni culturali, per esempio nel caso del contagio delle idee. Immagino che tu abbia tentato di non cadere negli errori di Dawkins e Cavalli Sforza. In che modo, secondo te, le idee si contagiano? D: L’errore non risiede nel cercare una fonte di ispirazione dalla biologia. Quello che conta, dopo tutto, è la qualità dell’ispirazione. Io non sono affatto contrario alla biologia, da cui per esempio prendo a prestito la metafora dell’epidemiologia. L’epidemiologia mi interessa per diverse ragioni. Una di queste riguarda il rapporto tra le scienze cognitive e le scienze sociali. Il rapporto tra l’epidemiologia e le patologie individuali è un rapporto di differenza di scala. Quegli stessi fenomeni che vengono esaminati a livello delle patologie individuali sono presi in considerazione anche a livello di popolazione. Immagina di praticare una sorta di zoom che inquadra prima un singolo individuo e poi un’intera popolazione. Possiamo considerare in modo analogo il rapporto tra i fatti psicologici e i fatti sociali. Non si tratta di due realtà diverse, ma della stessa realtà considerata in due scale differenti. Sarebbe un errore pensare che i processi psicologici individuali possano essere isolati dal mondo sociale. Gli stati mentali possono avere delle cause e degli effetti sociali perchè è la stessa vita mentale che è immersa nella vita sociale. Se invece andiamo nella direzione opposta e facciamo una sorta di zoom out, allora non si guarda più nella mente dell’individuo, ma si finisce per concentrarsi sulla rete sociale e sulle catene causali che tengono connesse la mente individuale e l’ambiente. In questo senso, se si pensa alla vita sociale in termini di catene causali che legano gli individui al loro ambiente, i modelli epidemiologici forniscono un punto di partenza costruttivo. Credo che ci sia un rapporto di pertinenza reciproca tra lo studio della mente e lo studio della vita sociale. In definitiva, potremmo dire che non si capisce cosa è un fenomeno sociale se non si tiene conto che tanti episodi della vita sociale accadono nel cervello degli individui e, d’altra parte, non si comprende la vita mentale degli individui se non si rende conto del fatto che la vita mentale individuale ha luogo in una rete sociale. |
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