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Come è possibile considerare la conoscenza umana, sia nei suoi contenuti, sia come attività, una vera e propria risorsa economica? E' possibile vedere, in essa, un bene naturalmente o culturalmente non inesauribile, deperibile, scambiabile, valutabile, o, per usare le parole di L. Robbins, un "mezzo scarso applicabile ad usi alternativi" Se così fosse, come sarebbe possibile collegare tale presunta "scarsità economica", alla peculiare dipendenza ontologica di detto "bene" dalle attività cognitive, logiche, linguistiche ed euristiche che la pongono in essere? Oppure, il solo porsi queste domande, in termini così "prosaici" e "merceologici", dovrebbe far inorridire (o sorridere) chiunque volesse solo accostare seriamente uno dei problemi fondamentali dell'epistemologia contemporanea, e cioè la natura stessa della conoscenza, considerata come fenomeno sia naturale che sociale?
Quello che segue è un argomento non perorato solo a sostegno di un'idea di "conoscenza come risorsa economica" ma a favore, altresì, della proposta per cui tale "equivalenza tassonomica" andrebbe accolta non solo dalle scienze sociali ma anche, e soprattutto, dall'epistemologia filosofica. La conoscenza, così, non risulterebbe essere solo un vero e proprio "taxon merceologico" umano, ma anche si parva licet uno tra i beni più importanti sia per la sopravvivenza, sia per la stessa dignità razionale della nostra specie, essendo il suo più inestimabile "tesoro evolutivo" |