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Michel de Montaigne, Les Essais, (Edition de Jean Balsamo, Catherine Magnien-Simonin et Michel Magnien), Bibliothèque de la Pléiade, 2007. 79,00 euro “Gli altri formano l’uomo; io lo descrivo. (...) I segni della mia pittura sono sempre fedeli, benché cambino e varino. (...) Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa (...) Io non posso fissare il mio oggetto. Esso procede incerto e vacillante, per una naturale ebbrezza. (...) Non descrivo l’essere. Descrivo il passaggio”. Malgrado l’apparenza, non sono parole di un libertino o di un pericoloso “relativista” contemporaneo, ma di un fervente cattolico rinascimentale che andava a messa tutte le mattine nel suo castello sperduto nella campagna francese, di un diplomatico “conservatore” , di un magistrato tutto d’un pezzo vissuto nel bel mezzo di feroci scontri religiosi e politici. Parliamo di Michel Eyquem de Montaigne, dei cui celebri Essais è da poco uscita in Francia una nuovissima edizione nella “Bibliothèque del Pléiade”, basata su un testo del 1595, dato alle stampe dopo la morte dell’autore dalla sua ventitreenne “figlia elettiva”, Marie de Gournay, da lui amata “più che paternamente”. Questa edizione, regolarmente ristampata fino alla fine dell’Ottocento, consiste nell’opera pubblicata – vivente l’autore - nel 1580 (i libri I e II) e nel 1588 (libri I e II - con aggiunte - e III), arricchita da un considerevole numero di “allongeailles”, cioè di note aggiunte a margine di un testo che Montaigne rimaneggiava continuamente: “provvisoriamente definitivo”, per dirla con Robert Musil. Un’edizione piuttosto diversa, quindi, da quella modernizzata, riordinata e “ricostruita” nel 1922, a partire da un brogliaccio manoscritto, da Fortunat Strowsky e Pierre Villey. In un celebre saggio sulla “evoluzione” di Montaigne, Villey aveva individuato un periodo stoico nella sua giovinezza, una crisi scettica intermedia e un periodo maturo di riflessione sulla sostanziale bontà dell’uomo. Tenendo conto dell’ammonimento, negli Essais, a non “ostinarsi a tracciar di noi un insieme stabile e solido” e dell’ idea che “noi siam fatti tutti di pezzetti, e di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni momento va per conto suo” sembra ragionevole il proposito dei nuovi curatori di sostituire a una “ricostruzione archeologica (...) un testo reale, un’opera vivente”. Senza pretendere di inventare la versione “ideale” degli Essais, l’opera che viene oggi presentata al lettore è quindi meno ordinata, più coerente con la caratterizzazione che ne dà il suo stesso autore: una rapsodia (dal verbo greco rhaptein, cucire) che mette insieme quasi 1400 citazioni, per lo più da autori latini, una raccolta di appunti, di “schizzi”, di “disegni”, una “registrazione di diversi e mutevoli eventi e di idee incerte e talvolta contrarie”, un “autoritratto”. Da questo grande affresco di quel che è passato per la mente di un uomo, sono state tratte le lezioni più diverse. Buona parte di quel che a noi sembra interessante di Montaigne – le sue intuizioni fulminanti, il suo stile, il suo parlare scettico, la natura “mobile” e rivedibile della sua saggezza – fu trattato come amabile stravaganza dai suoi contemporanei, che preferivano il suo lato stoico e sentenzioso. Fu invece apprezzato, seppure in modi diversi, dagli scettici e dai libertins della prima metà del Seicento (a partire da Pierre Charron fino a Gassendi, Cyrano de Bergerac, La Mothe Le Vayer e Gabriel Naudé). Anche Bacone, Shakespeare e Joseph Glanvill, in Inghilterra, si ispirarono a lui. Non piaceva invece al sistematico Descartes e a Pascal (che lo considerava “confuso”) e fu messo all’Indice romano – che non gradiva il suo scetticismo e la sua comprensione per le ragioni dei protestanti - nel 1676 (in Spagna già nel 1640!). Le sue idee sull’educazione, sui miracoli e sulla tolleranza ispirarono molti illuministi, da Locke, a Hume, da Voltaire a Diderot. I romantici ritrovarono in lui la riscoperta della tradizioni popolari e il ritorno alla natura. Nietsche ne apprezzò l’”audace e alacre scetticismo”. Claude Lévi-Strauss ha reso omaggio al Montaigne etnologo traendo ispirazione per Il pensiero selvaggio (1962) dal suo saggio sui cannibali. E poi André Gide, Leonardo Sciascia e un lungo elenco di scrittori e filosofi del Novecento. Cosa ci attrae di Montaigne nel 2000? Sembra scontato rispolverare il suo scetticismo –anche se forse serve a ricordarci che si può essere cattolici e scettici (o relativisti) – o il suo stile quasi “da Internet”, fatto di pensieri sparsi da cui ciascuno può attingere liberamente gli insegnamenti di cui sente il bisogno. Ci ripete continuamente che con le sue opere non vuole insegnare nulla, ma dalla sua vita si può trarre qualche utile ispirazione. Per esempio, il coraggio di prendere le distanze dal potere, di allontanarsi dalla vita politica non perché sconfitti, o delusi, o pessimisti, ma semplicemente per riflettere e migliorare. Francois Mitterand si è fatto un giorno fotografare con i saggi di Montaigne sotto il braccio. Non ricordo di aver visto foto di politici nostrani con un libro (di Montaigne o di altri). Forse dovrebbero riflettere su uno dei suoi aforismi: "Capita alle persone veramente sapienti quello che capita alle spighe di grano: si levano e alzano la testa dritta e fiera finché sono vuote, ma quando sono piene di chicchi cominciano a umiliarsi e ad abbassare il capo". (parzialmente pubblicato su Il Sole 24 Ore, domenica 24 giugno 2007 |
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