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Un dialogo auspicabile
di Corrado Ocone
 
 
 
La teoria evoluzionistica, elaborata da Charles Darwin e presentata ne L’origine delle specie, il capolavoro che uscì a Londra nel 1859, è stata perfezionata e confermata nel secolo e mezzo che corre da quella data. Tanto che si può oggi asserire, con una certa apoditticità, che essa è una delle più solide conquiste scientifiche di ogni tempo. E’ proprio per questo che, indipendentemente forse dalle intenzioni di Darwin stesso, l’evoluzionismo è diventato col tempo anche una teoria generale, una concezione del mondo e della realtà: facendo dell’uomo una parte e nemmeno la più importante dell’universo e della sua storia (il ciclo evolutivo appunto), sullo sfondo dell’emergere casuale, in un dato punto del tempo e dello spazio, della vita organica e delle sue successive specificazioni e complicazioni.
Per collocare l’evoluzionismo in modo corretto nell’ambito della consapevolezza umana, e per darne nella misura del possibile un giudizio corretto e ponderato, occorre, secondo me, tener ben fermo il suo carattere di “dottrina scientifica”. Il termine scienza indica infatti non solo e non tanto un ambito particolare e “oggettivo” dello scibile umano, quanto più propriamente un’attività o meglio una prospettiva o un “metodo” conoscitivo che l’uomo può assumere sul mondo. Con i suoi precisi e ben codificati presupposti, le sue regole, i suoi limiti gnoseologici. Caratteri questi che, nella misura in cui sono rispettati, fanno della scienza un’impresa umana fondamentale e rigorosamente seria e coerente. E’ quanto accade, in verità, non solo alla scienza ma ad ogni prospettiva sul mondo seriamente “fondata”: alla religione, alla filosofia, alla politica, alla tecnica, forse persino all’arte. Ovviamente, operando le attività umane nella realtà, e non essendo l’uomo un ente la cui conoscenza e la cui vita si svolgano per “compartimenti stagni” o a “cassettini”, è normale che le suggestioni o le idee maturate in un ambito conoscitivo finiscano nella concretezza della realtà spesso per essere trasposte, trasfigurate o reimpostate in altri ambiti. A maggior ragione ciò può accadere, e anzi è accaduto e continua ad accadere, ad una dottrina così solida e potente qual è quella elaborata da Darwin. Questa operazione può essere compiuta in modi di eccelsa raffinatezza e profondità, come in filosofia è successo nelle dottrine di Bergson e Theilhard de Chardin. Ma può anche ridursi, in modi più o meno parodistici, a una semplice e automatica trasposizione di idee valide in un ambito di conoscenze in un ambito diverso e che dovrebbe muovere da altri presupposti e rispettare altre regole in vista di obiettivi diversi. Si tratta di un’operazione che avviene frequentemente, e purtroppo non esclusivamente a un livello intellettuale poco sofisticato. Essa non è mai innocente e può anzi diventare, in determinati casi e a determinate condizioni, addirittura pericolosa. Succede quando si ipostatizza e rende assoluto un metodo, giudicandolo “vero” e “oggettivo” e persino in qualche modo “definitivo”. E’ in questo contesto che maturano le metafisiche e le ideologie, con tutta la loro forza dogmatica e “totalitaria” che anche nella nostra storia recente abbiamo purtroppo l. La scienza, che rispetto ad altre discipline è meno immune da questo corto circuito, soprattutto in quanto avvezza al metodo della “falsificabilità” e alla pratica del dubbio metodico o dello scetticismo in atto, può anche essa cadere in questo “peccato” di origine o di hybris (“tracotanza”). E lo può fare sia nei termini rozzi e volgari, ma da noi per fortuna per lo più lontani, dello scientismo positivistico, sia in altri più sobri e meno trionfalistici ma sempre ugualmente irriflessi e tendenzialmente “totalitari”. Che poi quest’ultimo atteggiamento, oggi molto diffuso, sia proprio anche di illustri scienziati e teorici dell’evoluzionismo, apportatori spesso di originali sviluppi nella dottrina (un nome fra tutti: Dawkins), non deve meravigliarci più di tanto, né intimidirci nell’uso pubblico della nostra ragione anche nei loro confronti. Si potrebbe anzi dire che è lo stesso loro sforzo generoso, che ha anche molto di non razionale e che è una sorta di “amore”, verso l’oggetto dei loro studi, li porta a chiudersi, quasi temessero di perdere la concentrazione, non dico verso il mondo ma senza dubbio verso le innumerevoli prospettive e i molteplici angoli visuali (gli “infiniti mondi” di cui parlava Giordano Bruno) che possono ogni giorno ridestare quella “meraviglia” che faceva dire ad Amleto che c’erano più cose fra cielo e terra che in ogni umana filosofia.
Ma andiamo al punto. Credo che, per approssimarci a quella impostazione corretta e ponderata sul senso e il valore dell’evoluzionismo a cui facevamo riferimento all’inizio, sia opportuno distinguere quanto meno tre modi diversi di avvicinarsi ai problemi della cosmogonia e della cosmo-ìstoria, cioè ai problemi che sono messi in discussione in prima istanza dal darwinismo e dal post-darwinismo: quello della scienza, l’altro della filosofia, l’altro ancora della fede o della religione.
Se teniamo fermo questo schema di ragionamento, ci rendiamo conto, da un diverso e più essenziale punto di vista rispetto a quelli normalmente in corso, di tutta la pretestuosità e direi protervia di quei credenti che vogliono imporre i loro rigidi schemi religiosi ad una teoria che intanto può essere confutata in quanto si abbia l’accortezza di rimanere saldamente ancorati al terreno scientifico. I tentativi per lo più rozzi dei creazionisti di confutare, dall’alto della loro dogmatica o alla luce della “rivelazione”, l’evoluzionismo, ma anche quelli apparentemente più sofisticati di chi immagina un “disegno intelligente” che in qualche modo possa conciliare tutto e salvare come suol dirsi capre e cavoli, non sono criticabili perché scientificamente errati e intrinsecamente “arcaici”: lo sono, più radicalmente e propriamente, perché scientificamente non pertinenti. Non fosse altro perché mentre una teoria scientifica, fosse anche la più granitica e solida, è sempre in punta di diritto confutabile o “falsificabile”, una verità di fede appartiene per sua natura all’ambito del non transeunte e del non negoziabile. E’ difficile perciò seguire sui giornali la diatriba creazionisti-evoluzionisti, ed è preoccupante che anche molti uomini di cultura sembrino prenderla fin troppo sul serio: è una querelle che non c’è, non può esserci, perché la creazione di cui parlano gli uomini di fede seri non può essere affatto giocata sul terreno dell’ “oggettività” scientifica a cui devono restare rigidamente ancorati gli uomini di scienza. Fanno perciò bene gli scienziati quando protestano contro le indebite ingerenze della religione sul terreno che è loro proprio. Sbagliano invece, a mio modo di vedere, quando non si limitano a reagire ma vanno oltre e partono in contrattacco al fine di smascherare, dall’alto della loro scienza e in nome dell’ “oggettività”, le “illusioni” e le “mistificazioni” di cui si fa propagandista a scopi di potere l’odiato “infame”. Dimenticando che per chi è stato gratuitamente toccato dalla fede ha un senso e un valore anche quel mondo che si è costruito e a cui fa riferimento. Il fatto è che anche l’ “oggettività” è frutto di una costruzione, non è affatto una condizione incondizionata e originaria. Almeno così la pensa il filosofo, il terzo attore di questa vera e propria “tragedia” della conoscenza, a cui pure, come per l’uomo di fede, è vietato, dalla serietà e deontologia richiesta dalla sua disciplina, di mettere becco nell’ambito che è proprio dello scienziato. Non è vera filosofia quella che si erge a giudice e fustigatore dei sistemi scientifici, che si pone in una posizione di “superiorità” che non ha in verità nessun diritto di essere. Così come non è vero scienziato, o almeno si concede una sorta di vacanza, un safari, lo scienziato che non coltiva più in laboratorio la sua ricerca e insegue il suo demone ma pensa a distruggere con la forza del suo sistema di regole metodologiche ciò che pensa chi con uguale diritto segue altre regole o vuole percorrere altri sentieri. In concreto, si può dire che il filosofo si distingue dallo scienziato proprio perché fa completamente a meno dell’ “oggettività”. Egli evita accuratamente ogni “presupposto oggettivante”, ogni accettazione incondizionata dell’idea che noi siamo in grado di rispecchiare integralmente con la nostra scienza una realtà che sta lì, “fuori da noi”, tutta pronta per essere da noi decrittata. Proprio nella cura a tenersi lontano da ogni “presupposto oggettivante”, la filosofia circoscrive lo spazio della sua azione e della sua autonomia, costituendo altresì la propria identità (o “natura”): questa almeno è la consapevolezza attuale a cui è giunta la disciplina.
Che dire? Scienziati e filosofi dovrebbero collaborare e parlarsi molto più, nella pari dignità e consapevoli che fra le loro discipline non ci sono, non possono esserci, gerarchie e “verità” assolute ma nemmeno confuse ibridazioni (come ad esempio quelle presenti nei libri di un Orlando Franceschelli) e inestirpabili automatismi di pensiero. Il dialogo arricchirebbe tutti, sarebbe foriero di suggestioni e reciproci stimoli intellettuali, farebbe conoscere più a fondo e rispettare le idee dell’altro, renderebbe ognuno più umile ma gli darebbe una visione meno unilaterale, e quindi intellettualmente più forte, del sapere e delle capacità conoscitiva dell’essere umano. Nulla vietando ovviamente che una singola persona possa essere sia filosofo sia scienziato. Ripeto: quando qui si parla di scienza o di filosofia, si parla non di ambiti spazialmente delimitati ma di metodologie e prospettive conoscitive.