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I tre sensi del Sans Papiers
di Maurizio Ferraris
 
 
 
Migrazione. La scorsa estate, come tante altre, è stata segnata dalle notizie di carrette del mare che sbarcano, e talora affondano, o lasciano affogare davanti alle coste italiane, uomini, donne e bambini che possiedono solo quello che i filosofi chiamano “nuda vita”: la vita senza altre determinazioni, e alla mercé di chiunque, come si vede. La nuda vita, la vita offesa, è un’esistenza potenzialmente senza memoria, che può sparire senza lasciar tracce. Se ci facciamo caso, è proprio questa circostanza che viene fotografata dalla qualifica di “sans papiers”.
Ecco, manca un pezzo di carta e diventi per l’appunto un “sans papiers”, un “senza carte”, un “senza casta”. Tante volte non ci facciamo caso, a questa carta che sta alla base delle carte di identità e si custodisce in quelli che si chiamano “portafogli”. Ci vuole un foglio, un supporto fisico che può anche essere semplicemente il blip di un computer, ma assolve un ruolo decisivo nella nostra vita. Se ho un nome e un cognome, una professione, dei rapporti di parentela, se posso comprare qualcosa, se posso espatriare o prendere a prestito un libro, se sarò curato nel peggiore o nel migliore dei modi, non è certo per la mia bella faccia, a meno che quella faccia non sia riprodotta nelle modalità prescritte su un pezzo di carta o di plastica, accompagnata da una serie di cifre, filigrane, timbri, firme, ornamenti dall’apparenza frivola e arcaica, che raramente hanno attirato l’attenzione dei filosofi, portati, come tutti, a considerare carte da bollo e ceralacche come qualcosa di accidentale e di barbarico, o peggio di burocratico e barboso, insomma come la quintessenza dell’inessenziale.
Ora, i documenti saranno pure scartoffie e arabeschi insensati, orpelli futili privi di una ragione intrinseca, tanto è vero che possono prendere una quantità di forme diverse; ma se questi pezzi di carta o di plastica debitamente colorati, firmati, controfirmati, iscritti e compilati mancano, siamo fritti. O meglio, siamo per l’appunto, in diverse gradazioni dei sans papiers, con una deprivazione che, nei sans papiers veri e propri, può spingersi sino alla schiavitù. È sicuramente un caso, ma aiuta a riflettere: l’editto che quasi mille anni fa prefigurò in Inghilterra l’habeas corpus come si chiamava? Magna Charta, of course.

Globalizzazione. Ma “sans papiers” non significa soltanto “senza documenti e senza diritti”. Al singolare, indica anche un’altra circostanza, non meno rilevante dal punto di vista teorico anche se meno tragica, e cioè “senza carta”: da pochi anni, le registrazioni non avvengono più, esclusivamente o essenzialmente, su carta.
Secondo tema, dunque, seguendo il filo conduttore del sans papiers o del sans papier: cosa succede in questo mondo, prima e dopo la carta, ma mai senza la scrittura? Cosa succede nel momento in cui il denaro è diventato un blip sul computer della banca, i biglietti un codice che comunichi al controllore, le firme un sistema digitale, e si apprende che fra cinque anni il New York Times uscirà soltanto online, e che dai supermercati e dai giornalai americani spariranno quei chili di carta? E che tale è già il destino del Post-och Inrikes Tidningar, il più antico quotidiano del mondo, fondato nel 1645 dalla Regina Cristina di Svezia? Sans papier, dopo tre secoli e mezzo.
La carta è finita? La carta è decrepita e va in pensione? No: finisce la carta come veicolo esclusivo, la carta diventa una cosa del passato, giacché la carta non è più il mezzo per eccellenza su cui si scrive; ma non finisce la scrittura, anzi, cresce in modo esponenziale. E il risultato è niente meno che la globalizzazione, che è resa possibile proprio dalla scrittura. Tutto, se vogliamo, è iniziato con l’internazionalizzazione della borsa di New York nel 1982, cioè, facciamoci caso, non dopo l’invenzione dell’aereo e del telefono, bensì subito dopo l’introduzione del personal computer. La globalizzazione è intervenuta solo nel momento in cui è stato possibile sincronizzare lo scambio non dei beni, bensì dei titoli che si riferivano ai beni.
Ecco, precisamente, il punto: la globalizzazione non è una mondializzazione delle merci ma della scrittura che ne registra il valore. Il resto è venuto da sé, ed è entrato nella vita degli individui, che hanno incominciato a prenotare su Internet una pensione a Santo Domingo dove ricongiungersi con i vicini di casa e rincominciare a litigare.

Privacy. C’è un terzo senso in cui, di questi tempi, si è sans papiers, oltre al poter essere senza diritti e al fatto che sempre meno i documenti e i testi sono esclusivamente su carta. Se il sans papiers è uno di cui non si vuol sapere niente, ci sono tantissimi comunitari, e ancor più connazionali, di cui si vuol sapere tutto, o meglio, di cui vogliono sapere tutto gli inquirenti.
Prendiamo infatti una tipica scenetta della primavera-estate, davvero molto ma molto meno tragica degli sbarchi dei sans papiers, però di sicuro effetto circense, le intercettazioni. Per esempio quelle di Moggi, 400 telefonate al giorno, ne risentiva anche nel fisico, a vederlo in foto si direbbe che l’emisfero destro della sua testa sia deformato dall’abuso del telefonino. Sempre in giro, e sempre al telefono. Ai tempi della posta e dei telefoni fissi, una vita come quella di Moggi sarebbe stata inconcepibile, e forse era meglio così.
Sì, sarebbe stata una vita impossibile, ma ai tempi della carta. Le lettere e arrivavano lì, ma lui era là, altrove. Adesso no. Tutte le missive, tutti i missili, arrivano eccome a destinazione e tumefanno l’emisfero, lo gonfiano come un grosso bernoccolo. Soprattutto, di tutti questi messaggi e spostamenti c’è traccia sui tabulati della compagnia telefonica e dunque anche nei faldoni degli inquirenti. Ora, il caso delle intercettazioni, con tutti i problemi etici e giuridici che suscita (non si vive di sole farse, purtroppo o per fortuna) è quello della registrazione e del trasferimento su carta e su web, di parole che, grazie alla crescita dei mezzi di registrazione, si sono appesantite e non volano più.
“Vicino è il tempo in cui avrai tutto dimenticato, vicino il tempo in cui sarai dimenticato da tutti”, scriveva Marco Aurelio, descrivendo il destino di tutti. Questo destino oggi prende, piuttosto curiosamente, i contorni dell’utopia.

(Il Sole 24 ore, domenica 27 aprile 2007)