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Scrivere di filosofia
di Mario De Caro e Pietro Perconti
 
 
 
I testi filosofici sono testi creativi oppure no? Ecco una domanda che sembra innocua ma che in realtà fa emergere intuizioni radicalmente diverse su ciò che è o dovrebbe essere uno scritto filosofico. Tre libri recenti, i cui autori peraltro condividono una comune ispirazione analitica, offrono tre punti di vista molto diversi su tale vecchia e controversa questione. Si tratta del Manuale di scrittura (non creativa) di Marco Santambrogio e de Il Caso Wassermann e altri incidenti metafisici di Roberto Casati (entrambi pubblicati da Laterza) e de Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima (uscito da Guanda).
Il libro di Santambrogio non è proprio quello che dice di essere. Si presenta quasi come se fosse un manuale universitario, mentre in realtà è un saggio su cosa dovrebbe essere la scrittura non creativa , nel senso della scrittura tesa a produrre buoni testi informativi, persuasivi o argomentativi. Si pensi ai rapporti professionali, alle tesi di laurea e di dottorato, agli articoli e ai saggi scientifici. Santambrogio si propone di enunciare le regole che questo genere di testi dovrebbero seguire per svolgere bene il proprio lavoro. E dice chiaramente che il lettore dal suo libro “non deve aspettarsi niente che possa servire alla sua creatività: per questo deve pensarci da solo” (p. IX).
L’autore mostra al lettore come organizzare le sue argomentazioni, chiarire la tesi che intende difendere, distinguerla dalle altre relative allo stesso ambito presenti nella letteratura e, in definitiva, persuadere i propri interlocutori che ciò in favore di cui sta argomentando è quanto di più vicino alla verità si possa elaborare nel momento in cui si scrive. Si tratta di raccomandazioni che dovrebbero valere per ogni tipo di testi, ma che spesso – probabilmente per la formazione dell’autore – fanno riferimento a saggi di natura e contenuto filosofico. Secondo Santambrogio, in sostanza, la creatività è un obiettivo da perseguire soltanto nella fase dell’elaborazione delle tesi che si vogliono sostenere e degli argomenti che le giustificano, e non in quella della traduzione letteraria di quelle tesi e di quegli argomenti. L’idea è che quando la scrittura filosofica pretende di essere creativa, la creatività, lungi dall’essere un pregio, può facilmente divenire un difetto, perché distrae l’attenzione del lettore da ciò che veramente conta in filosofia: ovvero l’argomentazione.
Il modo in cui le idee filosofiche vengono presentate nei libri di Massarenti e di Casati non potrebbe essere più lontano dal modello di scrittura filosofica proposto da Santambrogio. Ne “Il lancio del nano” Massarenti ha raccolto gli articoli da lui pubblicati in “Filosofia minima”, la rubrica settimanale del Domenicale del Sole 24 ore. A giudicare dai temi che discute, si potrebbe pensare che si tratti di un ponderosissimo tomo di un pensatore sistematico: vi sono infatti affrontati i grandi temi della tradizione filosofica (dal libero arbitrio alla giustificazione dell’induzione, dalla presunta indiscutibilità del gusto estetico allo scetticismo) e le più attuali questioni di filosofia applicata (come la bioetica, la business ethics, il terrorismo, i diritti umani). Lo stile di Massarenti, tuttavia, è quanto di più lontano dalla filosofia accademica: brioso ed arguto (Groucho Marx e Woody Allen sono tanto citati quanto Platone e Leibniz), spesso prende spunto da una situazione concreta e si conclude con un paradosso. Spesso le argomentazioni, che pure ci sono, sono intenzionalmente interrotte da battute o divagazioni, e molte tesi sono presentate in maniera aporetica. Se si dovesse ricercare un modello classico a cui ricollegare la scrittura di Massarenti potremmo forse citare il Voltaire del Dictionnaire Philosophique, non certo il rigoroso argomentare di Quine o del primo Russell (autori che pure nel volume sono citati con deferenza). Ciò che dobbiamo porci è se, seguendo le indicazioni di Santambrogio, dovremmo considerare questo tipo di scrittura come necessariamente non filosofico.
Un esempio può aiutarci a rispondere a questa domanda. In una pagina, Massarenti prende spunto da un discorso in cui il Papa, nel sostenere l’illiceità dell’aborto, sosteneva che “estremamente potente è l’idea che Dio di quell’embrione ancora ‘informe’ veda già tutto il futuro”. Con una brillante provocazione intellettuale, Massarenti nota che questa impostazione, lungi dal risolvere la questione dell’aborto, apre un baratro teologico: quello relativo alla questione della teodicea. Se, per esempio, da sempre Dio sa che cosa diverrà del feto di Adolf Hitler, perché non interviene a modificarne la natura? Forse Dio non è veramente onnipotente oppure non è onnisciente o magari non è infinitamente buono? Questioni complessissime, naturalmente, cui Massarenti si diverte ad accennare brevemente con una chiara intenzione polemica. Non c’è dubbio che la scrittura di questa pagina – in cui si mescolano argomentazioni, ironia, polemica politica e citazioni classiche – abbia un carattere “creativo”; ma perché non dovremmo considerarla, a tutti gli effetti, una pagina filosofica?
Diverso, ma non del tutto, è “Il Caso Wassermann e altri incidenti metafisici”. Questo volume raccoglie dodici racconti. E i racconti sono chiaramente esempi di scrittura creativa. Esplicitamente, tuttavia, nelle sue storie Casati discute alcune idee filosofiche; anche in questo caso, dunque, potremmo provare a fare un esame al testo usando le regole suggerite da Santambrogio. Sarebbe un disastro! In questo libro non ci sono tesi esplicite, non viene presentato lo stato dell’arte della letteratura sul tema, non ci sono argomentazioni chiare. Siamo davanti ad una dozzina di racconti che prospettano scenari filosoficamente stimolanti.
Casati sembra quasi consapevole della propria difficoltà a passare l’esame di Santambrogio. E infatti, rifacendosi alla sua esperienza di filosofo rigoroso, alla fine del libro sembra quasi scusarsi della sua vena letteraria. Con le sue parole: “La filosofia insegna a guardare altrove, e in cambio esige che si guardino le cose di tutti i giorni come alla moviola, come se fossero una possibilità tra le tante” (p. 117). Da qui l’esigenza professionale del filosofo di costruire mondi possibili, di intrattenersi con la possibilità che le cose vadano diversamente da come potrebbe sembrare. “L’immaginazione, di un tipo quasi letterario, è una componente essenziale di questo esercizio” (ibidem). A furia di esercitare la propria immaginazione figurandosi situazioni diverse da quella reale, il filosofo può talvolta provare una sorta di vertigine, come se passasse davanti ad una finestrella ventosa in cima a una torre altissima. Casati a questo punto afferma: “Non c’è posto per questa vertigine in un libro di filosofia, in un articolo accademico” (ibidem).
Così Santambrogio sarebbe forse soddisfatto. Potrebbe dire: “Ecco, appunto, non si tratta di un libro di filosofia. È letteratura. Beninteso, talvolta la letteratura può suggerire ottime idee filosofiche, ma resta comunque il fatto che la letteratura è letteratura e la filosofia è filosofia”. Ma al termine della riflessione metafilosofica che chiude il suo libro, Casati getta un po’ di scompiglio nella questione relativa alla creatività di un testo filosofico: “Pudore, riservatezza, necessità di convincere razionalmente e di non coinvolgere emotivamente: tutto milita per una oggettivazione del sentimento. Ma sovente nella storia della filosofia si passa vicino alla finestrella, come nelle fonti che elenco qui sotto e che hanno ispirato in parte i racconti” (ibidem). Segue una lista commentata di fonti filosofiche classiche e prestigiose a cui Casati dice di essersi ispirato. Sarebbe come dire che i propri racconti attingono allo stesso sentimento di vertigine che ha ispirato la migliore filosofia passata e contemporanea.
Come negarlo, d’altronde? Non è forse buona filosofia quella dei dialoghi di Platone? Oppure, poiché a volte non conclude i ragionamenti o lascia le domande senza risposta, non dovremmo neppure considerarla buona filosofia? Una soluzione potrebbe consistere nell’immaginare la creatività relegata allo spazio che esiste dietro le quinte del discorso filosofico e richiedere che i testi di filosofia presentino i loro risultati con il rigore e l’impersonalità che generalmente hanno i saggi delle scienze esatte. Succede qualcosa di analogo nella matematica. I resoconti introspettivi di vari matematici ci hanno informato sui processi creativi che stanno dietro le loro intuizioni. I loro resoconti scientifici, però, non esibiscono tale creatività. Forse anche i filosofi potrebbero fare così: concepire le loro idee come meglio credono e attenersi ad una pratica argomentativa sobria e disciplinata.
Un suggerimento di questo tipo risulterebbe utilissimo per gran parte dei testi di filosofia. Nelle tesi di laurea o di dottorato, negli articoli scientifici specialistici e anche in molti libri accademici è forse meglio evitare l’esibizione delle inclinazioni personali dell’autore e la storia di come egli ha concepito la sua idea. È senz’altro preferibile presentare l’idea chiara e tonda e non suggerirla in modo ammiccante. La discussione filosofica è una pratica pubblica per l’elaborazione di teorie in grado di spiegare fenomeni. Se l’interlocutore si sottrae alla discussione presentando – invece che idee apprezzabili pubblicamente – suggestioni personali, associazioni libere e semplici impressioni, allora egli sta anche sottraendosi a un dialogo genuino. Per la parte che riguarda l’elaborazione di testi filosofici, il libro di Santambrogio dovrebbe essere raccomandato a tutti gli studiosi che impongono al loro lettore uno sforzo di fantasia per indovinare il loro pensiero. Sono raccomandazioni che in un certo senso si sarebbero potute fare anche a Ludwig Wittgenstein, se si considera la natura frammentaria, epigrammatica e talvolta oscura dei suoi testi. Eppure in quel modo ammiccante di scrivere c’è una parte della filosofia di Wittgenstein, così come nel teatro dei dialoghi di Platone c’è la sostanza stessa delle sue idee.
Proviamo allora a mettere le cose diversamente. Davvero abbiamo bisogno di regole della filosofia “professionale”, che ci dicano che forma deve avere un testo filosofico per essere un buon testo? E se fossimo estremamente liberali e accettassimo come testi di filosofia sia il divertissement di Massarenti sia i racconti di Casati sia i testi rigorosi, e talora forse un po’ noiosi, cui pensa Santambrogio? Potremmo nutrire la nostra filosofia sia di testi quasi letterari sia di saggi disciplinati secondo il bisogno della nostra ricerca e il desiderio degli autori che scegliamo di leggere. Salvo poi, evidentemente, riservarci il diritto di giudicare un testo quasi letterario illuminante o insulso e un testo disciplinato come un buon compitino o una elegante esibizione di una argomentazione convincente.