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Che senso hanno le epistemologie femministe? Stando ad alcuni, nessuno, perché, mentre il femminismo è un movimento di uno specifico gruppo sociale con tendenze verso il separatismo e il particolarismo, fare epistemologia significa invece capire che cos’è la conoscenza per l’essere umano in quanto essere umano. Le epistemologie femministe non hanno quindi più senso di quello che potrebbe avere «un’epistemologia nera o gay o degli anziani o delle organizzazioni sindacali o dei club calcistici o dei media» (Hesse 1994, p. 445). È senz’altro vero che c’è stato e c’è un femminismo che tende a essere particolarista e separatista, ma non è l’unico tipo di femminismo. Le riflessioni femministe sono molte (ci sono il femminismo afro-americano, essenzialista, evolutivo, islamico, liberale, marxista, radicale, separatista, psicoanalitico, socialista, esistenzialista, postmoderno) e non sono strutturate in una disciplina capace di offrirci teorie tra loro coerenti (basti ricordare che al suo interno convivono posizioni che rivalutano le proprietà e le mansioni delle donne di un tempo con posizioni che vogliono decostruire la stessa nozione di «donna»). Tuttavia, questo non è un problema perché l’eterogeneità di idee, approcci e argomentazioni viene ben rappresentata dalle epistemologie femministe: l’omogeneità invece va evitata perché con l’omogeneità si rifiutano le molteplici diversità che rappresentano importanti risorse per le nostre esistenze epistemiche. Tra gli scopi delle epistemologie femministe vi è quello di mettere in luce l’ottica «politica», «opportunistica», «sessista» che guarda la conoscenza delle donne con disprezzo e con pregiudizi. Questo scopo ha generato e continua a generare una pletora di orizzonti per ricostruire approcci epistemologici su piattaforme nuove e auto-consapevoli, lontane dall’approccio tradizionale. Si tratta di uno scopo sensato in quanto, come attestano la storia e lo stato attuale delle nostre società, non attribuiamo conoscenza all’essere umano in quanto essere umano, bensì a soggetti sessuati, che appartengono al genere maschile o femminile, utilizzando spesso stereotipi di tipo sessista. Se così non fosse, la nostra società vedrebbe percentuali più o meno simili di uomini e donne nelle posizioni lavorative che richiedono conoscenze non solo specifiche, ma anche «elevate»: primari in ospedali, magistrati, professori universitari, deputati, senatori, manager, e così di seguito. Abbiamo scritto «elevate», oltre che «specifiche», perché nessuno nega alle donne conoscenze specifiche: nessuno nega che le donne sappiamo cucinare in media meglio degli uomini, e forse da ciò segue che debbano in media farlo comunque più degli uomini. Ma quando la conoscenza, oltre che specifica, diventa «elevata», si attribuisce più conoscenza agli uomini rispetto che alle donne: di che sesso o genere sono i migliori chef al mondo? E se anche la conoscenza dei neri, dei gay, degli anziani, e così via, viene guardata con disprezzo e pregiudizi, ben vengano allora epistemologie che lo evidenziano e che vi pongono rimedio. Le epistemologie femministe hanno però senso solo a patto che il genere rappresenti l’ingrediente determinante sotto il profilo epistemico. I fattori che sono stati affiancati al genere (storia personale, razza, classe sociale, preferenza sessuale, cultura, età) potrebbero essere alla base di qualsiasi epistemologia, mentre le epistemologie femministe, proprio per poter essere «femministe», hanno bisogno di contare sul fatto che il genere sia l’ingrediente di primaria importanza, o perlomeno uno dei principali, nelle affermazioni di conoscenza. Conferire un significato epistemologico al genere equivale però a negare la tesi tradizionale dell’interscambiabilità, stando alla quale i soggetti conoscenti sono «interscambiabili» nel senso che non sussistono variazioni epistemiche rilevanti tra di loro. Negare questa tesi potrebbe essere inteso come cedere alla tesi sessista che donne e uomini pensano e conoscono in modo differente. Se poi al fattore «genere» si aggiungono altri fattori, come la razza, la classe sociale, o la preferenza sessuale, potrebbe significare cedere alla tesi razzista che le differenti razze pensano e conoscono in modo differente, alla tesi classista che classi sociali diverse pensano e conoscono in modo differente, alla tesi eterosessista che eterosessuali e omosessuali pensano e conoscono in modo differente. Che sessismo, razzismo, classismo, eterosessismo ci ripugnino o meno, è necessario affrontare correttamente questo problema, a partire dalla considerazione del fatto che i soggetti conoscenti risultano epistemicamente interscambiabili se dispongono sostanzialmente delle medesime capacità cognitive. Occorre quindi chiederci se i soggetti conoscenti condividono le medesime capacità cognitive, senza l’assurda pretesa di essere in grado di dirimere la questione a tavolino: la risposta va affidata alle scienze empiriche e, in particolare, alla psicologia. Ricercare una risposta empirica al quesito sulle supposte differenze di capacità cognitive di diversi gruppi sociali non significa però né accettare ciecamente i dati ottenuti dalle scienze, né supporre che il processo di produzione di questi dati sia perfettamente immune da condizionamenti sociali e politici. Anche questi dati vanno letti con una mente critica. Di fronte ai molti studi psicologici che affermano di aver inequivocabilmente dimostrato l’esistenza di differenze decisive tra le capacità cognitive maschili e quelle femminili, occorre tenere presente tre punti. Innanzitutto, quando la letteratura in questione viene sottoposta a un vaglio critico, si finisce con il dover ammettere che sono in realtà scarsi gli elementi scientifico-empirici a favore di un stile conoscitivo tipicamente femminile, diverso e/o contrapposto a quello maschile. In secondo luogo, nell’ipotesi che trovassimo davvero questi elementi, dovremmo valutarli con grande serietà, senza trincerarci dietro la richiesta di eguaglianza tra donne e uomini – una richiesta a volte foriera di quei noti atteggiamenti acritici che identificano tutta la cognizione con la cognizione maschile. Infine, se vogliamo sostenere che il genere deve assumere un’influenza determinante nella riflessione epistemologica, dobbiamo fare i conti sia con l’approccio costruttivista, sia con quello essenzialista. Chi è costruttivista sostiene che il ruolo epistemico che occupiamo sul piano sociale è connesso al nostro sesso biologico e/o al nostro genere solo in un senso contingente: per esempio, l’idea che i soggetti conoscenti di sesso maschile siano più adatti e/o bravi a riparare una tubatura, a decidere la strategia di una guerra, a studiare in modo approfondito logica e matematica, e così via, è solo socio-culturale (socio-culturale nel senso che i soggetti vengono maggiormente incoraggiati da un certo tipo di educazione) e quindi reversibile. Chi è essenzialista sostiene invece che il ruolo epistemico che occupiamo sul piano sociale è legato al nostro sesso biologico e/o al nostro genere in un senso inevitabile: per esempio, è intrinseca (biologicamente, ma non solo) all’essenza maschile, e quindi irreversibile, l’idea che i soggetti conoscenti maschi siano più adatti e/o bravi a riparare una tubatura, a decidere la strategia di una guerra, a studiare in modo approfondito logica e matematica. Il contrasto fra essenzialismo e costruttivismo si radica nella differenza fra un approccio biologico e uno sociologico, capace di spiegare la differenza sessuale. È opportuno però ricordare che il contrasto fra questi approcci non è così assoluto come viene talvolta prospettato. Riguardo al sesso biologico, infatti, dobbiamo tener presente che la sua «naturalità» non è affatto scontata: se, infatti, con «sesso biologico» ci si riferisce a una divisione biologica in due soli sessi, occorre ricordare che essa è poco giustificata sotto il profilo empirico perché incapace di rendere conto di tutti quegli esseri umani che sono intersexed e sotto il profilo teorico perché incapace di rendere conto dei «soggetti eccentrici». Ciononostante, alcune supposte differenze tra le capacità cognitive (ed emotive) degli uomini e delle donne vengono considerate alla stregua di un «destino» biologico da alcune ricerche che fanno riferimento alle difformità ormonali o alle difformità nella struttura e nelle funzionalità cerebrali – ricerche che presentano peraltro parecchie similarità con quelle alla caccia del gene dell’omosessualità, per sostenere che l’omosessualità è geneticamente determinata. Mentre alcuni ritengono che, sebbene esistano, non è affatto chiaro cosa queste differenze comportino, altri sostengono che esse sono alla base di stili cognitivi differenti che vedono le donne prevalere in compiti che richiedono memoria, competenze linguistiche e numeriche, coordinazione meccanica, percezioni rapide e precise, e gli uomini prevalere in compiti che richiedono abilità motorie, attitudini spaziali, competenze logico-matematiche, percezioni di figure geometriche. Se non si è costruttivisti, affermare che la conoscenza tipicamente femminile è diversa e/o contrapposta alla conoscenza maschile comporta fare proprie tesi essenzialiste come quelle che seguono: il soggetto di genere femminile è culturalmente collettivista, dipendente e correlato agli altri; le donne sono tradizionalmente esseri sociali, e comunque più sociali degli uomini e, in quanto tali, stabiliscono facilmente contatti con gli altri e coltivano amicizie intime; le donne sono empatiche e sensibili; la conoscenza delle altre persone è per lo più femminile; c’è un punto di vista sulla realtà che è peculiarmente femminile; una visione femminile considera la conoscenza oggettiva come una forma di interazione tra esperienza emotiva ed esperienza cognitiva. L’essenzialismo risulta però criticabile sotto vari aspetti. Innanzitutto, è opportuno ricordare che non ci sono solo donne «femminili», ma anche donne «mascoline», così come ci sono uomini «mascolini» e uomini «femminili». Ne segue che i generi non possono essere solo due, ma devono essere perlomeno quattro; potrebbero poi moltiplicarsi, se si considerano omosessuali, lesbiche, androgini, ermafroditi, travestiti, transessuali, transgender. A quel punto si potrebbe parlare di molteplici essenze: essenza della donna femminile, essenza della donna mascolina, essenza della donna lesbica, e via di seguito. Le cose si fanno però più complicate se consideriamo che non si può parlare in astratto di una donna femminile o di una donna mascolina o di una donna lesbica, e che, infatti, le epistemologie femministe prendono in considerazione storia, razza, classe sociale, cultura, età, eccetera, della donna. Se consideriamo tutto e vogliamo ancora parlare di essenza, non possiamo fare altro che moltiplicare le essenze, violando il cosiddetto rasoio di Ockham: il rasoio è un invito alla parsimonia nelle questioni metafisiche, condensato in un principio generale, o in un assunto metodologico, secondo il quale non dobbiamo postulare entità inutili o moltiplicare le entità oltre il necessario. Solo se le differenze tra genere femminile e maschile prevale su storia individuale, appartenenza a razze e a classi sociali, preferenze sessuali, opportunità culturali, età, diventa doveroso essere essenzialisti. È noto che una delle convinzioni più incisive contro l’essenzialismo si deve a Lacan: se prendiamo in considerazione «la donna» e se l’articolo definito che precede «donna» sta a indicare la donna universale, allora la donna non esiste. L’essenzialismo sembra appellarsi a una misteriosa essenza femminile, dentro cui forzare a tutti i costi le tante differenze tra donne, per negarle o renderle inspiegabili – basti pensare a come le donne di colore e le donne lesbiche sono maggiormente discriminate rispetto alle donne bianche e alle donne eterosessuali. Secondo la critica più convincente e più nota dell’essenzialismo, l’idea che tutte le donne presentino similarità essenziali è solo normativa e serve a costringere gli esseri umani a comportarsi in determinati modi, a legittimare determinate pratiche e a delegittimarne altre. Serve, ad esempio, a legittimare il fatto che agli uomini e alle donne vengano riservati ruoli sociali e sessuali distinti sotto il profilo epistemico, che gli uomini e le donne debbano rispettare norme epistemicamente diverse, che gli uomini debbano ad esempio conoscere con la ragione e le donne con il cuore. Ricerche psicologiche permettendo, queste contrapposizioni possono venire rifiutate (biologicamente e culturalmente) in quanto insensate, ingiuste, superflue. Una volta rigettato l’essenzialismo, si potrebbe tentare di identificare il soggetto conoscente con un soggetto androgino, che nel mito greco viene prima del contrasto tra maschile e femminile, il cui sesso di appartenenza – nell’ipotesi che la categoria del sesso goda ancora di qualche consistenza e/o valore – non avrebbe alcuna incidenza sul piano epistemico. Oppure, si potrebbe abbracciare un’epistemologia à la Popper, in cui il soggetto conoscente viene eliminato, perché a contare non è «il mondo dei soggetti», bensì il mondo delle teorie, dei problemi e delle argomentazioni che circoscrive la conoscenza oggettiva. In questi due casi verrebbe però a cadere la domanda cardine delle epistemologie femministe: di quale conoscenza stiamo parlando e di chi è questa conoscenza?; ovvero, stiamo parlando della conoscenza delle donne? Delegittimando «a priori l’esplorazione della continuità esperenziale e della base strutturale comune tra le donne» (Bordo 1990, p. 142), idee come quelle appena proposte potrebbero decretare la fine delle epistemologie femministe, oltre che di ogni pratica e filosofia femminista. Perché non ribadire invece che, nonostante siano differenti, le donne rimangono accomunate dal fatto di vivere in società sessiste, maschiliste, patriarcali? Se da una parte è vero che donne diverse hanno esperienze cognitive diverse (immaginate quanto distanti possa essere il vissuto epistemico di una bambina tailandese costretta a prostituirsi e di una bambina inglese destinata a diventare regina), è altrettanto vero che ogni donna sperimenta su di sé una qualche forma epistemica di sessismo, maschilismo e patriarcato. Non occorre peraltro appellarsi a istanze essenzialiste per rivendicare la socialità del soggetto conoscente: ogni soggetto, femminile o maschile, richiede interazioni con altri soggetti a fini conoscitivi, e difatti abbiamo visto che non può fare a meno di conoscere in senso competenziale, di contestualizzare le proprie pretese conoscitive, di conoscere le altre persone, di contare sulla testimonianza, di fare assegnamento sull’intersoggettività per cogliere un punto di vista oggettivo, di confrontarsi con i valori e/o i pregiudizi della società in cui vive. In realtà gli aspetti sociali del conoscere riguardano ogni soggetto, al di là non solo del suo genere, ma anche di razza, classe sociale, preferenza sessuale, cultura, età. Sottovalutare l’interdipendenza epistemica, considerarla una caratteristica superflua del soggetto conoscente, pensare di poter isolare quest’ultimo dal proprio gruppo sociale e dalla propria cultura, così come ha fatto l’epistemologia tradizionale, significa costringerlo a conoscere poco e destinarlo a una difficile «sopravvivenza» epistemica. Anche nell’ipotesi che venisse decretata la fine delle epistemologie femministe, rimane così fermo e plausibile un loro importante risultato: i soggetti conoscenti sono epistemicamente dipendenti ed è quindi falsa la tesi tradizionale dell’autonomia e dell’autosufficienza, secondo la quale essi «non necessitano di interazioni con altri esseri umani per acquisire conoscenze» (Antony 1995, p. 63). Riflettendo su conoscenza competenziale, contesti, conoscenza degli altri, testimonianza, oggettività, valori e punti di vista femminili, è emerso un soggetto conoscente che non può essere individualista. Riflettendo su identità delle donne, su conoscenza di sé e trauma è emersa la necessità di una concezione del sé relazionale e narrativa perché solo questa è in grado di garantire una nozione di identità personale che integra i mutamenti anche radicali a cui talvolta ci sottopone la vita. In conclusione, nell’epistemologia così come nella metafisica, il contributo originale che una filosofia delle donne può apportare alla filosofia tradizionale consiste in una difesa più argomentata e in una comprensione più profonda della dimensione sociale dell’esistenza umana. Bibliografia Antony L., 1995: Sisters, Please, I’d Rather Do it Myself: A Defence of Individualism in Feminist Epistemology, in «Philosophical Topics», 23, pp. 59-94 Bordo S., 1990: Feminism, Postmodernism, and Gender-Skepticism, in Nicholson 1990, pp. 133-156 Hesse M., 1994: How to Be Postmodern without Being a Feminist, in «The Monist», 77, pp. 445-461 (pubblicato per gentile concessione della casa Editrice Laterza, omettendo alcuni riferimenti bibliografici) |
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