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Una disputa di attualità
 
 
 
Sulle origini dell’uomo una disputa di attualità
di Francesco Ferretti
(apparso sul Manifesto del 4 gennaio 2007)

Non c’è dubbio, è proprio John Kennedy. Visto dall’alto (in certe condizioni di luce e da un particolare punto di vista prospettico) il pendio scosceso di una collina delle isole Hawaii appare alla vista come il disegno del volto del presidente americano. Non sono mai stato da quelle parti (e non ho idea di come appaia a vederlo dal vivo) ma ho davanti ai miei occhi la fotografia del luogo: la somiglianza è impressionante. Come spiegare tale somiglianza? Se non siete tra quelli che decidono il proprio destino leggendo i fondi di caffé (ravvisando in ogni forma che ricorda qualcosa l’intervento di un occulto disegnatore) avete una sola risposta convincente da offrire: si tratta di una pura casualità. Prendiamo ora un caso diverso. Il profilo di Washington, Jefferson, Lincoln e Roosevelt raffigurato su una parete del Monte Rushmore nel South Dakota non è certamente il prodotto casuale degli agenti atmosferici: qui la sagoma dei presidenti scolpita sulla roccia risponde a un progetto intenzionale – chi ha scolpito la pietra aveva in mente un fine preciso da realizzare. L’esempio, proposto da Richard Dawkins in Alla conquista del monte improbabile (Mondadori, 1997), è utile a distinguere le entità del mondo dipendenti dal «caso» da quelle la cui esistenza fa capo all’esecuzione di un «progetto». Tale distinzione, che oggi è al centro di un’accesa discussione, ha radici antiche.

L’idea che il mondo naturale sia il prodotto di un «disegno intelligente» è a fondamento della Natural Theology di William Paley (1802). Se attraversando una brughiera scorgiamo a terra un orologio non possiamo far altro che collegarlo al progetto di un orologiaio; se gettiamo l’occhio su una pietra, diversamente, non ci poniamo la questione di chi l’abbia fatta in quel modo. L’orologio esibisce i segni dell’intelligenza di chi lo ha realizzato: la complessità che lo caratterizza non può dipendere dal caso. La conclusione di Paley è che «l’orologio deve avere avuto un costruttore; che devono essere esistiti, in qualche tempo e in qualche luogo, un artefice o degli artefici che lo formarono in vista del fine al quale noi vediamo che effettivamente risponde, che ne comprendevano la struttura e ne progettarono l’uso». Ora poiché gli esseri viventi sono molto più complessi degli orologi è da escludere che essi siano dovuti al caso: così come è impossibile pensare a un orologio senza pensare all’orologiaio che lo ha realizzato, non è possibile pensare agli esseri viventi senza pensare al «disegno intelligente» del progettista che li ha creati. L’argomento per analogia ha una innegabile forza persuasiva: persino Charles Darwin si lasciò «incantare e convincere» dai testi di Paley la cui lettura, come sottolinea nell’Autobiografia, gli procurò «altrettanto piacere quanto Euclide».

Il tema del progettista divino è di stretta attualità. Il processo tenutosi a Dover in Pennsylvania alla fine del 2005 relativo alla richiesta dei neocreazionisti di inserire le dottrine del disegno intelligente a scuola nelle ore di scienze a fianco della dottrina darwiniana ha aperto una accesa discussione. In Italia ha fatto scalpore la cancellazione (con successiva riabilitazione dopo il rapporto della Commissione presieduta da Rita Levi Montalicini) del darwinismo dai programmi ministeriali ad opera di Letizia Moratti. Le richieste dei neocreazionisti fanno leva su un aspetto interessante da discutere. Nel luglio 2005, George W. Bush ha fatto appello all’argomento delle «pari opportunità» per giustificare il suo appoggio alla campagna per l’insegnamento del disegno intelligente. Le istanze dei neocreazionisti – il cui grido di battaglia è teach more science – sembrano poggiare in effetti su un principio di buon senso: la garanzia di un libero confronto tra scuole di pensiero alternative. Perché, dopotutto, non dovremmo ammettere la teoria del disegno intelligente accanto alla teoria evoluzionista? In Creazione senza Dio (appena pubblicato da Einaudi), Telmo Pievani respingere le richieste dei neocreazionisti proponendo convincenti argomenti teorici.

L’argomento delle pari opportunità vale come garanzia di un confronto pluralistico di opinioni solo se il dibattito è tra posizioni che sono realmente sullo stesso piano teorico. I neocreazionisti sostengono che la dottrina del disegno intelligente è una tesi scientifica al pari dell’evoluzionismo. Come giustificano questo assunto? Delegittimando il darwinismo, innanzitutto. Mettendo in atto la cosiddetta «strategia del cuneo», la mossa, vale a dire, di infiltrarsi nelle difficoltà di una teoria con l’intento di farla esplodere dal suo interno. Seguendo tale strategia, l’americano Philip E. Johnson in Darwin on Trial (InterVarsity Press, 1993) sostiene che i contrasti interni all’evoluzionismo poggiano su antinomie insanabili e disaccordi teorici così radicali da minare lo statuto empirico della teoria. Un’altra mossa è di esasperare e ingigantire alcuni aspetti del darwinismo sino a rappresentarlo in termini caricaturali: in una prospettiva del genere, la mutazione genetica casuale viene assunta come il punto prospettico attraverso cui valutare l’intera teoria dell’evoluzione sino ad arrivare alla tesi per cui gli umani sarebbero figli del caso e di una storia senza senso.

Se è lo statuto di scientificità del disegno intelligente ciò che sta davvero a cuore ai neocreazionisti allora in realtà non c’è molto da discutere: bisogna attenersi alle regole della comunità scientifica. Per quanto sia possibile articolare distinzioni di dettaglio, non è legittimo alimentare controversie inutili: i criteri alla base delle pratiche sperimentali sono largamente condivisi dagli scienziati – nessuno si sogna di mettere in discussione l’obbligo di esibire evidenze empiriche o la necessità di rendere pubbliche le scoperte e i protocolli di ricerca adottati, solo per fare un esempio. Se la dottrina del disegno intelligente aspira a essere considerata un modello scientifico è a criteri di questo genere che deve attenersi. Il richiamo all’argomento delle pari opportunità vale infatti solo a patto che i contendenti rispettino le stesse regole del gioco; come sottolinea Telmo Pievani, tuttavia, «non si gioca ad armi pari se da una parte hai la comunità scientifica – con i suoi vincoli, i suoi codici di comportamento e il suo scetticismo istituzionalizzato – e dall’altra chi agita anatemi». Non è possibile appellarsi all’argomento delle pari opportunità e sostenere, come fa il Vescovo di Vienna Christoph Schönborn (New York Times, 7 luglio 2006), che «ogni sistema di pensiero che nega o cerca di fornire spiegazioni che si discostano dalla fortissima evidenza di un progetto nella biologia, non è scienza ma ideologia». Di fronte ad argomenti di questo tipo ogni riferimento al riconoscimento reciproco è un’invocazione retorica destinata a cadere inesorabilmente nel vuoto.

Tanto basti per la pars destruens dei fautori del disegno intelligente. Che dire a proposito della pars costruens? È la «mistica della complessità» l’argomento più forte utilizzato dai neocreazionisti a sostegno del disegno intelligente. Poiché la complessità non può essere dovuta al caso, deve dipendere da un progetto divino: la «magnificenza» della natura richiede un principio che trascende la natura stessa. Nel best seller Darwin’s Black Box (1996, The Free Press), il biochimico americano Michale J. Behe introduce il concetto di «complessità irriducibile» tornando con insistenza sull’argomento per analogia introdotto da William Paley. La complessità dei viventi mina alla radice ogni ipotesi esplicativa di tipo riduzionista: i sistemi complessi sono entità governate dal principio secondo cui l’intero è maggiore della somma delle parti. Ora, poiché è impensabile ipotizzare uno stadio in cui un dispositivo complesso possa funzionare senza una delle parti che lo compongono non è possibile credere che un sistema del genere possa evolvere gradualmente a partire da sistemi più semplici. L’unica spiegazione dell’esistenza di entità complesse è quella che fa riferimento al progetto di un orologiaio intelligente e preveggente. Come far fronte a questo tipo di argomenti?

Una prima cosa da dire riguarda il termine «riduzionismo». In L’orologiaio cieco (Mondadori, 2003), Richard Dawkins sostiene che, in certi ambienti, proclamarsi riduzionisti, è un po’ come ammettere di mangiare bambini. Le critiche al riduzionismo, tuttavia, sono molto spesso rivolte a una concezione ingenua che nessuno scienziato serio sostiene effettivamente. Quando si passa da una concezione di questo tipo a forme più sofisticate di riduzionismo le obiezioni mosse a questo approccio teorico perdono gran parte della loro efficacia argomentativa. L’adesione a una forma di «riduzionismo gerarchico», ad esempio non impedisce a Dawkins di provare lo stesso senso di meraviglia verso gli «orologi viventi» che ispirò così fortemente William Paley. Dawkins è in effetti pienamente consapevole del fatto che la complessità degli esseri viventi meriti una giustificazione adeguata. Ne è prova la critica mossa a David Hume: per quanto i Dialoghi sulla religione naturale rappresentino una prova formidabile del fatto che il disegno intelligente non regge a livello concettuale, resta il fatto che il filosofo scozzese «non offrì alcuna spiegazione alternativa del disegno apparente, ma lasciò aperto il problema». Non poteva farlo, d’altra parte, perché prima di Charles Darwin non esisteva una soluzione alternativa al problema. Gran parte della ripresa delle tesi di Paley da parte dei neocreazionisti poggia sulla distinzione dicotomica tra caso e progetto: se la complessità non può essere attribuita al caso, deve dipendere da un progetto. L’evoluzionismo darwiniano ha rotto tale dicotomia chiamando in causa il ruolo di un terzo elemento: la selezione naturale. Per quanto i neocreazionisti insistano nel considerare l’evoluzionismo darwiniano governato dalla casualità, il caso gioca un ruolo all’interno del processo evolutivo, ma non caratterizza tale processo nella sua interezza. Offrendo la possibilità di spiegare la complessità degli organismi senza ridurla al caso e senza chiamare in causa l’intervento trascendente di un creatore, l’alternativa offerta da Darwin rende l’ipotesi del disegno intelligente semplicemente superflua.

La forza straordinaria che il modello darwiniano offre alla riflessione sul posto dell’uomo nella natura è riassumibile, come sottolinea Telmo Pievani, in una parola sola: possibilità. Darwin in effetti ci ha consegnato una possibilità radicale: «quella di concepire le origini della specie umana in termini esclusivamente naturali e con gli strumenti della scienza, prescindendo completamente da cause trascendenti o finalistiche». Una possibilità del genere ha conseguenze decisive sul tema della natura umana. Sgombrato il campo dalla teleologia, il modello evoluzionista mette in discussione l’idea della scala naturae che colloca gli esseri umani al vertice della gerarchia del mondo animale. Persino l’immagine dell’albero della natura – spesso indicata come il simbolo dell’ortodossia darwiniana – può essere fuorviante a rappresentare la natura del processo evolutivo. Come sostiene Horst Bredekamp in I coralli di Darwin (Boringhieri, 2006) tale immagine, infatti, attraverso «la verticalità ascendente insista nella metafora dell’albero», continua a rimandare a una concezione finalistica e verticistica della dinamica dei viventi. La figura che meglio si adatta a fungere da modello interpretativo dell’evoluzione degli umani è il corallo le cui ramificazioni «non vagano solo verso l’alto, ma proliferano come in un rilevamento cartografico in tutte le direzioni» offrendo una metafora più adeguata dell’evoluzione delle specie intesa come un processo di sviluppo indipendente dal progetto intenzionale di un architetto divino.

La possibilità di spiegare la complessità degli «orologi viventi» senza alcun riferimento all’intervento di un creatore esterno alla natura non significa che non si possa – per chi ritiene sia giusto farlo – chiamare in causa l’intervento divino nella creazione: significa però che non è necessario farlo. Per chi crede che il rasoio di Occam rappresenti un canone imprescindibile dell’indagine teorica a ogni livello un risultato di questo genere è di enorme importanza. Darwin ci offre l’opportunità di mantenere insieme la complessità del vivente (e, se si vuole, la meraviglia di fronte al fatto che entità altamente improbabili siano effettivamente esistenti) e una spiegazione naturalistica in grado di fare a meno dell’intervento di un creatore trascendente. Che non sia necessario chiamare in causa l’opera di un orologiaio intelligente, d’altra parte, non significa che la tesi creazionista sia necessariamente falsa. Come sottolinea giustamente Pievani il naturalismo, in effetti, «non è una resa, e neppure una reazione contro la Chiesa o contro le religioni: è un’opzione autonoma, libera e piena di senso, a suo modo». L’indipendenza e l’autonomia di una posizione di questo genere è una condizione che merita uno stato di vigile attenzione: così come deve essere garantito a chiunque il diritto di interpretare come il risultato di un intervento creativo eventi che dal punto di vista scientifico possono essere spiegati indipendentemente dall’attività di un progettista divino, deve essere garantita anche la possibilità (libera e autonoma) di una giustificazione naturalistica del posto degli umani nella natura. Quando si mantiene integra tale possibilità l’insegnamento di Darwin è che del disegno intelligente si possa fare a meno. Di questi tempi, in cui il fanatismo religioso (nelle sue varie forme) è esibito con ostentazione, un insegnamento di questo tipo non ci sembra davvero un risultato da poco.

Processo alla scienza
di Mario De Caro
(apparso sul Manifesto del 5 gennaio 2007)

Sino a tempi recenti in Italia era pratica comune distribuire i film stranieri traducendone in modo strampalato il titolo. In un’ideale palmares di questa categoria, il primo premio sarebbe senz’altro da attribuire all’inarrivabile Non drammatizziamo: è solo questione di corna! (titolo originale: Domicile conjugal) del povero François Truffaut. Ma una menzione speciale spetterebbe anche a E l’uomo creò Satana, titolo con cui nel 1960 venne da noi distribuito Inherit the Wind, un filmone diretto da Stanley Kramer e interpretato da tre star come Spencer Tracy, Frederick March e Gene Kelly. Con quel terribile titolo, peraltro, il distributore italiano aveva probabilmente cercato di alludere allo spirito laico e progressista che animava il film: esso infatti rappresentava, in maniera sostanzialmente fedele, lo spettacolare processo (il famoso “Scopes-Monkey Trial”) in cui nel 1925, a Dayton, Tennessee, i difensori della teoria dell’evoluzione avevano impartito una sonora sconfitta ai fondamentalisti religiosi contrari al suo insegnamento. In virtù della sconfitta in quel processo il fondamentalismo rimase relegato ai margini della società americana per molti decenni; e a tenerne a bada il revanchismo contribuì anche il grande successo del generoso filmone che Kramer gli dedicò trentacinque anni dopo. A partire dagli anni Ottanta, però, i circoli di intellettuali teo-con che hanno ispirato le politiche prima di Reagan e poi di Bush Jr. sono riusciti nell’impresa di ridare nuovo fiato al fondamentalismo religioso. E così – come ha mostrato ieri, su queste pagine, Francesco Ferretti – ottantadue anni dopo lo Scopes-Monkey Trial e quarantasette dopo il film di Kramer, gli attacchi contro la teoria dell’evoluzione, e più in generale i tentativi reazionari di instaurare una nuova alleanza tra stato e religione, si sono fatti di nuovo minacciosamente vitali.
Per comprendere le origini dell’attuale cruciale scontro sulla teoria dell’evoluzione può allora essere utile tornare di nuovo al famoso Scopes-Monkey Trial, in cui il fondamentalismo ricevette la sua prima, sonora sconfitta. Nel 1925, dunque, al pari di altri stati dell’Unione, il Tennessee aveva promulgato una legge che vietava l’insegnamento della teoria dell’evoluzione perché in urto con il dettato biblico (in particolare contro il racconto della creazione dato nel Genesi). Un gruppo di difensori delle libertà civili decise di reagire. Serviva un insegnante che si prestasse a violare quella legge liberticida, tenendo una lezione sul darwinismo. La scelta cadde sul ventiquattrenne John T. Scopes, che venne arrestato appena iniziata la lezione. Tutto si sarebbe risolto in un processo di scarso interesse, se non fosse stato per i due pesi massimi che presero rispettivamente le parti dell’accusa e della difesa. Come pubblico ministero, infatti, venne scelto William Jennings Bryan, un democratico del Sud che era stato Segretario di Stato per il Presidente Wilson e tre volte candidato alla Presidenza degli Stati Uniti. Bryan era un fondamentalista, convinto assertore dell’interpretazione letterale della Bibbia, e da tempo desiderava impartire una lezione ai darwiniani. La difesa di Scopes non fu da meno dell’accusa, perché fu affidata al più famoso legale del tempo, Clarence Darrow, ben noto anche per il suo radicale laicismo. Di fronte a un pubblico enorme e a un gran numero di giornalisti di tutto il mondo, Bryan e Darrow lottarono con tutte le loro forze per difendere le rispettive visioni del mondo. Ad un certo punto, però, la posizione dell’imputato, e dunque del partito evoluzionista, parve farsi disperata. Fu quando il giudice decretò che nessuno scienziato poteva deporre al processo, perché la legge di cui si discuteva menzionava la Bibbia, ma non la teoria di Darwin. Fu a quel punto che Darrow ricorse a una mossa procedurale che passò alla storia del sistema giudiziario americano: come testimone della difesa chiamò, quale grande esperto di Bibbia, il Pubblico ministero!
L’interrogatorio che seguì sancì il trionfo del pensiero scientifico sul fondamentalismo religioso. In varie occasioni Bryan, secondo il quale il testo biblico andava inteso letteralmente, cadde in contraddizione (come poteva essere, per esempio, che durante il diluvio universale tutti gli animali che non erano saliti sull’Arca annegassero? E i pesci, allora?). Poi Darrow menò i suoi fendenti più poderosi, dimostrando – almeno a chi avesse orecchie per udire – che il tentativo di giustificare il Creazionismo sulla base dell’interpretazione letterale della Bibbia è intellettualmente insostenibile. In primo luogo egli lesse il famoso passo del Libro di Giosuè dove si dice che Dio fermò il Sole per non far calare le tenebre: se questo passo fosse vero letteralmente, allora il Sole si muoverebbe attorno alla Terra e dunque Copernico avrebbe torto – nonostante le prove inconfutabili del contrario di cui oggi disponiamo. Poi Darrow attaccò la tesi, tipica del Creazionismo, secondo la quale la Bibbia testimonierebbe che la creazione del mondo è avvenuta molto più recentemente di quanto non richiederebbero i tempi lunghi dell’evoluzione. Darrow chiese a Bryan se i sette giorni della creazione fossero stati necessariamente lunghi ventiquattro ore: e questi dovette concedere che se Dio avesse voluto, un ‘giorno’ sarebbe potuto durare trenta ore o trenta mesi o trenta milioni di anni. Ma allora – chiosò trionfalmente Darrow – i tempi lunghi dell’evoluzione non sono affatto incompatibili con il dettato biblico! Alla fine dell’interrogatorio tutti gli osservatori concordarono che l’interpretazione letterale della Bibbia era stata demolita. Il processo si concluse con una condanna simbolica per Scopes, poi revocata in appello; Bryan morì cinque giorni dopo, non si sa se per crepacuore o per indigestione; e i fondamentalisti vennero messi a tacere per vari decenni.
Oggi, però, i neo-con sono riusciti a resuscitare il fondamentalismo. Attualmente, il 42% degli statunitensi crede nell’interpretazione letterale della Bibbia, mentre un altro 18% ritiene che gli esseri umani siano frutto dell’evoluzione, ma che questa sia stata guidata dalla mano divina. Solo uno statunitense su tre, ritiene che la teoria dell’evoluzione basti a spiegare l’origine della specie umana. Forse è ora di mettere in cantiere un altro filmone sullo Scopes-Monkey Trial.