Scenari > Esperimenti
 
  
        
   
 
 
Corso Buenos Aires
di Roberto Casati
 
 
 
Fuori comincia a imbrunire. Il filosofo allunga una mano verso la lampada. Si fa una luce bassa, che arriva a malapena a scavalcare il margine dei fogli. Il tavolo è stato appoggiato deliberatamente al muro, per evitare che l'attenzione venga distratta dal riverbero della strada animata. È vero: la luce che filtra dalla finestra al quinto piano instilla silenziosamente il sospetto che anche questa sera molte persone stiano rientrando a casa – le stesse che ne sono uscite stamane. Nella casa dirimpetto qualcuno ha acceso una lampada, ma il filosofo non se ne accorge. Sente il freddo, questo sì. Sente la sete, ma non ci bada. Tra poco sarà ora di mettersi a tavola; un'idea questa che scende dalle alte regioni del pensiero per installarsi a mezza via tra lo stomaco e la gola. Tra poco la cameriera - quale ne sia il nome, il filosofo non ricorda; forse è cambiata dall'ultima settimana? non ricorda neanche questo, sembra un dettaglio privo di interesse. La cameriera entrerà dall'uscio in fondo al corridoio. Se ne avvertirà il passo veloce; si udranno traballare il piatto e la tazza. Il filosofo fa uno sforzo per riportare l'attenzione verso il foglio di carta su cui sono scritte alcune righe. La sua mano le ha tracciate lentamente nel pomeriggio, cercando la formulazione esatta fin dalla prima parola; cercando d'evitare i ripensamenti e le correzioni e le altre ferite inflitte dalla penna alla frase; poiché una frase ferita è come una frase mutila, che non può reggersi in piedi da sola, che forse non lo poteva già dall'inizio: che merita quindi la cancellatura. Nell'immagine del corridoio entra di nuovo l'immagine della cameriera; questa volta se ne sente il respiro affannato. È vero: occorre salire cinque piani di scale per arrivare alla stanza del filosofo. Il ristoro all'angolo gli fornisce quei pasti a poco prezzo; la cameriera è pagata anche per rinfrescargli di tanto in tanto la stanza e per tenere in ordine il cambio dei vestiti. Tutto questo permette a lui di restare in casa a meditare; volendo, potrebbe non uscire. Un elemento importantissimo, gli vien fatto di dirsi. Invero - è parte del gioco; una parte fondamentale.
Sono libero o non lo sono? Tempo addietro, aveva affrontato la questione con un giro di pensieri. “Ho un lavoro che comporta molti obblighi nei confronti di colleghi e studenti; ho un legame sentimentale che immagino indissolubile; ho degli amici e dei parenti. Ma ecco che si prospetta un’occasione in una città lontana, un cambiamento totale nella vita, un’avventura che riporta tutto alla casella di partenza. Sono libero di partire, di lasciarmi trascinare, di farmi travolgere? Lo sono in questo senso: anche se poi non lascerò il mio lavoro, la persona con cui vivo, nessuno può toccare questa mia sensazione di libertà. È un sentimento interno, privato, e per questo puro, al quale non posso rinunciare perché mi definisce”. Così ragionava. Oggi invece sente che questa intuizione dev’essere superata. Cerca quindi di entrare nel paesaggio mentale dell'uomo che desidera essere esattamente quello che già è. Cerca di convincersi d'essere sotto il peso d'una fortissima coercizione, e di voler tuttavia così essere: per capire se sarebbe ancora libero. S'immagina che gli sia precluso l'accesso al mondo di fuori - al ristoro all'angolo, alla strada, alla confusione della campagna elettorale, alle azioni e traffici che tengono in vita la città e la consumano e la ricreano ogni giorno. Se fosse costretto a restare in quella stanza; se la cameriera fosse anche la sua custode, messaggera di quelle poche parcelle di mondo esterno che lo tengono in vita: cibo e acqua; e di qualche lettera che egli non degna d'uno sguardo - ma se in seguito, andandosene, sprangasse la porta; se egli non potesse mai uscire. Mai più. Si ferma su questo pensiero e prova la tentazione di alzarsi e di avviarsi per il corridoio, scendere le scale, comprare le sigarette, camminare per i marciapiedi affollati. No, un attimo! Così rovinerebbe tutto. Non ha deciso di giocare il gioco fino al suo limite estremo? Perché allora aver abbandonato il proprio compito morale, l'insegnamento, e tutto il resto; perché mai aver cercato l'isolamento e la quiete se poi ci si arresta dinanzi primo problema teorico dei molti che si era deciso d'affrontare? Se ora egli andasse alla porta, l'aprisse, uscisse trafelato, che cosa cambierebbe? Apprenderebbe quello che già sapeva - che poteva comunque farlo. No, deve convincersi d'essere veramente intrappolato nella stanza al quinto piano. È l'unico modo di ottenere quella disposizione di spirito che gli permetterà di afferrare il pensiero più difficile, intorno al quale lotta da settimane - e di terminare in tal modo il suo lavoro. E quindi d'uscire, così come in fondo desidera.
No, ha sbagliato ancora: lui non desidera uscire. Deve fingere con se stesso: deve immaginare di essere prigioniero in quella stanza, e di desiderare d'esserlo. Se sospettasse, anche per poco, di non essere veramente prigioniero, non potrebbe essere sicuro della riuscita del suo esperimento mentale. Vuole concepire la possibilità d'una sensazione di libertà che si presenti anche nella coazione.
Ecco, il filo dei pensieri si tende di nuovo. Il freddo si sente meno. La fame oscilla un poco per ritornare a depositarsi in una regione più prossima alla mente. Allora l'effigie della cameriera si affievolisce; il suo passo diviene felpato. S'apre pertanto la strada alla ricapitolazione del ragionamento. Il filosofo spegne la luce. Vogliamo comprendere se siamo liberi quando sentiamo d'esserlo; quando desideriamo d'essere esattamente quel che siamo. Non vediamo alcun impedimento alla nostra azione; pensiamo dunque che potrebbe svolgersi, posto che non vi si frappongano nuovi ostacoli. Supponiamo di sapere che siamo rinchiusi nelle segrete di un forte inespugnabile. Potremmo cercare d'immaginarci in questa situazione. Le serrature invincibili; le grate ritorte; i muri spessi. Impossibile emergere. Ora ci vien chiesto di desiderare tutto questo. No, non esattamente. Di essere in carcere, di non sapere che è un carcere, e di desiderare d'essere esattamente in quel luogo. Immaginiamo ora di trovare persino una compagnia piacevole; la discussione è quanto mai interessante. Non vorremmo mai lasciare quegli amici. Siamo liberi? Di restare dove siamo. Certo: noi vogliamo restare in quel luogo. Ma ora si manda a dire che siamo, di fatto, in carcere. Scopriamo che l'unica cosa che possiamo fare è desiderare di restare in quel luogo; tanto comunque non ci sarà concesso uscirne. Fortunati che siamo: abbiamo desiderato proprio l'unica cosa che ci era permessa! Ma se questo è il nostro unico possibile desiderio, abbiamo ancora il diritto di chiamarlo un desiderio? No, bisogna cercare d'immaginare un'altra situazione.
Il pensiero ritorna alla stanza. Se io fossi chiuso qui dentro - so di non esserlo, ma riesco ad immaginare che cosa vuol dire star rinchiuso. Lo ricordo; sono stato in prigione. Ma non importa; voglio semplicemente desiderare di non uscire. Ecco la chiave di tutto: voglio raggiungere lo stato in cui mi è completamente indifferente sapere se posso o non posso veramente uscire; perché a quel punto vorrò soltanto restare. Devo contemplare questo stato in me, per comprendere se posso ancora chiamarmi libero.

Il pensiero non si ferma su alcun punto stabile. E poi ritorna la fame, nuvola inquieta. Rinasce la fantasmatica assistente, il vassoio emette una parvenza tintinnante. Il filosofo chiude gli occhi (è libero di chiuderli, come è libero di tenerli aperti; ma a che servirebbe? fuori è ormai buio). Fatica sprecata, pensa. Devo ricominciare, si ostina - non perverrò mai allo stato in cui so di non essere libero, e desidero d'essere quel che sono. Le circostanze sono troppo sfavorevoli all'esecuzione dell'esperimento mentale.

Primo errore. La cameriera arriva, percorre i pochi metri del corridoio, entra nella sala a sinistra. Il vassoio smette di tintinnare. Il pranzo è in tavola. La donna rifà il percorso all’indietro, esce di casa ed estrae da una tasca del grembiule una piccola chiave. Chiude silenziosamente la porta dietro di sé. Quattro mandate. Il filosofo non lo sa, ma non può uscire dalla stanza. Vi è rinchiuso sine die. Così hanno deciso, un mese fa, le autorità del Governatorato; un gruppo di studenti si era fatto motore d'una delazione. Non c'era stata difficoltà ad inventare indizi e sospetti per giustificare il provvedimento. Ma per una distrazione non si è comunicata al filosofo la condanna: la notifica è un granello di sale macinato e ridotto a polvere negli ingranaggi dell'amministrazione. Il filosofo non sa d'essere prigioniero; è trattato con ogni riguardo, si è pronti a respingere con fermezza ogni sua domanda, si è pronti ad accampare un pretesto per giustificare la detenzione davanti alla turbolenta opinione pubblica. Ma l'istanza di scarcerazione, il ricorso, l'appello non arrivano: il filosofo non li inoltra. Il Governatore è a tratti sorpreso, a tratti invece pensa che il filosofo abbia riconosciuto la difficoltà della situazione politica e non intenda far sentire la sua voce, per evitare di confondere ancor di più le acque già torbide. Da un lato loda il comportamento maturo del prigioniero; dall'altro gioisce perché sente di tenerlo in pugno, e perché sente di fiaccare, giorno dopo giorno, la speranza che il filosofo certo ancora coltiva - la speranza di uscire.

Secondo errore. Il filosofo è lontanissimo da questa speranza. Il solo pensiero di voler uscire gli è ormai diventato estraneo. Certo, se sapesse della condanna, batterebbe la testa conto i muri fino a uccidersi o a distruggerli. Se sapesse d'esser stato uno strumento nelle mani del tiranno si premerebbe i pugni contro le tempie finché gli occhi schizzerebbero dalle orbite. Ma non sa nulla: l'ordine di notifica della condanna è andato perso ed è stato da tempo dato per eseguito. La cameriera è discreta e tuttavia severa nel rimandare gli estranei; e i pochi amici che si sono presentati - di nascosto, tra mille pericoli - si sono visti rifiutare udienza con frasi aspre, messaggi di pugno dello stesso filosofo.

Due volti, certo, della mancanza di conoscenza. Si vorrebbe crederle due facce della stessa medaglia. Ma si badi: nel caso del filosofo, fortuna ha trasformato l'ignoranza in potere; nel caso del tiranno, l'ignoranza, mercè fortuna, è fonte d'impotenza. Fino a quando nessuno saprà dell'altrui incoscienza essi vivranno l'opposto della propria vita: per errore, invincibile il primo; per errore, inetto e senza riscatto il secondo.

(pubblicato per gentile concessione della casa editrice Laterza)