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Le scienze cognitive del linguaggio
di Antonino Pennisi e Pietro Perconti
 
 
 
Le scienze cognitive sono una delle imprese più affascinanti del panorama culturale di oggi. Il loro programma di ricerca consiste nella descrizione del fenomeno della conoscenza in ogni sua forma. Si tratta di elaborare teorie su cosa accade quando vediamo i colori che ci stanno di fronte, sentiamo un certo profumo, ricordiamo la lista della spesa o prendiamo una decisione sulla base della probabilità che accordiamo a un certo avvenimento. È evidente che si tratta di obiettivi scientifici molto ambiziosi, il cui raggiungimento può contribuire addirittura alla comprensione della natura umana. Se un giorno sapremo davvero cosa vuol dire conoscere, in un senso sufficientemente ricco di questa espressione, allora avremo anche un’idea conseguente di cosa vuol dire essere creature umane.
Secondo gli scienziati cognitivi il raggiungimento di tali obiettivi teorici produce due importanti effetti. Da una parte possiamo aspettarci che via via che saremo in grado di descrivere il funzionamento dei vari processi cognitivi, saremo anche in grado di riprodurli artificialmente. Già oggi, per esempio, esistono programmi di dettatura vocale per computer abbastanza affidabili, resi possibili dai progressi delle conoscenze scientifiche sul fenomeno del riconoscimento vocale. Dall’altra parte, sapere cosa vuol dire conoscere e saper riprodurre i processi della conoscenza può consentire di elaborare modelli efficaci per la riabilitazione delle funzioni compromesse.
Le scienze cognitive sono un’impresa in cui confluiscono gli sforzi e le competenze di studiosi di formazione diversa, tra cui psicologi, filosofi, linguisti, esperti di intelligenza artificiale e antropologi. Il linguaggio in tale progetto è un’area centrale. Solo quando sapremo come fa il corpo umano a scambiarsi dei significati con altri corpi potremo affermare di aver compreso qualcosa di apprezzabile nel fenomeno della conoscenza. D’altra parte è ben noto che, per limitarsi soltanto alla tradizione culturale dell’Occidente, il linguaggio è un oggetto di riflessione da almeno un paio di millenni. Filosofi, poeti, medici e scienziati di ogni sorta hanno offerto le loro riflessioni sulla natura e il funzionamento del linguaggio. Occorre quindi chiedersi cosa ci sia di particolare nel modo in cui le scienze cognitive studiano il fenomeno linguistico e provare a isolarne alcuni aspetti. La caratteristica probabilmente più macroscopica della prospettiva cognitivista nello studio linguistico risiede nell’idea di «elaborazione delle informazioni». Così come vedere vuol dire elaborare informazioni visive e decidere vuol dire elaborare informazioni in vista dell’azione, allo stesso modo parlare vuol dire elaborare informazioni linguistiche, ossia trattare dei significati, generalmente in formato proposizionale, per gli scopi ordinari per cui il linguaggio viene impiegato, tra cui pensare, comunicare, persuadere e registrare. L’espressione «elaborare informazioni linguistiche» va intesa in senso specifico. Il modo in cui generalmente viene usato il verbo elaborare ha a che vedere con il calcolo, un genere di operazione che viene compreso sulla base di ciò che fanno i computer e che si suppone accada in modo analogo anche nel cervello umano. Le «informazioni » sono porzioni di materia che giocano un ruolo psicologico nella mente degli individui. Per comprendere cosa è una informazione occorre prendere in considerazione sia il suo lato psicologico, ovvero il fatto che essa svolge un certo ruolo in una economia mentale, sia il suo lato materiale, cioè il fatto che gioca un ruolo anche in una economia fisica e biologica, tipicamente in un organismo animale. La «linguisticità» delle informazioni, infine, è il risultato di certe caratteristiche del formato delle rappresentazioni, come la loro proposizionalità.
Oltre a considerare il fenomeno linguistico come un processo di elaborazione di informazioni, le scienze cognitive del linguaggio sono caratterizzate anche da altri due elementi, che ispirano questo volume in modo speciale. In primo luogo il linguaggio non viene considerato come qualcosa di autonomo, ma come un sistema cognitivo la cui elaborazione è mediata da altri processi. Si tratta di un aspetto che emerge chiaramente se si bada alla questione del significato. Gli approcci autonomistici allo studio del significato considerano quest’ultimo come qualcosa di indipendente dalle influenze extralinguistiche. Secondo questa idea per elaborare una buona teoria del significato non è necessario considerare il ruolo che i concetti, la percezione o le basi fisiologiche hanno nella formazione di cosa vuol dire una certa parola o una certa frase. Basta concentrarsi sulle relazioni intralinguistiche. Il significato sarebbe interamente specificabile dalla rete di relazioni con gli altri significati. Le scienze cognitive del linguaggio rifiutano tale approccio e, tra tutte le influenze extralinguistiche, privilegiano il ruolo di quelle mentali. Per uno scienziato cognitivo interessato al linguaggio è importante la plausibilità psicologica delle rappresentazioni e questa sembra avere a che fare, oltre che con le relazioni interne al sistema linguistico, con una serie di abilità cognitive non interamente linguistiche come la percezione, la categorizzazione, eccetera. Studiare il linguaggio nelle scienze cognitive vuol dire innanzi tutto rendersi conto che parlare, scrivere e conversare sono modi in cui gli esseri umani articolano la propria conoscenza. Studiare il linguaggio vuol dire studiare un pezzo della mente. Ogni tentativo di segregare l’elaborazione linguistica dal resto dei processi cognitivi equivale a voler studiare come nuotano i pesci senza considerare l’acqua in cui il nuoto avviene.
Figurandosi il linguaggio come un sistema di elaborazione il cui funzionamento è mediato da altri processi cognitivi non si intende negare la specificità delle rappresentazioni linguistiche. Per esempio, se prendiamo in considerazione il significato di una frase come Mi scoppia la testa! usata per alludere a un forte mal di capo, ci si accorge che esso non è riducibile a ciò che accade nel cervello quando un individuo prova dolore. Mi scoppia la testa! non equivale alla somma del sordo lamento di dolore provocato dal mal di capo più le informazioni su cosa accade al nostro corpo quando pronunciamo la frase in questione. La rappresentazione linguistica del dolore trasforma quest’ultimo in un oggetto nuovo. Eppure, finché non consideriamo i legami tra la rappresentazione linguistica del dolore e ciò che quel dolore è per l’organismo che lo prova, non riusciremo neanche a capire ciò che c’è di specifico nella linguisticità del dolore umano. Detto altrimenti, per apprezzare la specificità della cognitività linguistica della specie umana, non serve fermarsi incantati a contemplarla, ma occorre farla emergere dallo sfondo delle altre capacità che ne mediano il funzionamento.
La terza caratteristica delle scienze cognitive del linguaggio, almeno come vengono presentate in questo volume, risiede nella convinzione che per comprendere il fenomeno linguistico occorre rivolgersi soprattutto alle scienze della vita e non alle scienze matematiche e informatiche. Il motivo di tale preferenza è che articolare il linguaggio è più un modo di «usare» il proprio corpo che un modo di usare un sistema astratto e formale. Le scienze cognitive hanno conosciuto due fasi nella loro pur breve storia. Fino a circa quindici anni fa le discipline prevalenti sono state l’informatica e l’intelligenza artificiale. La cognizione veniva considerata come il frutto di un processo di elaborazione delle informazioni di natura essenzialmente logico-astratta. La matematica, la logica e l’informatica erano le basi dello studio dei processi della conoscenza e gli scienziati cognitivi erano straordinariamente attirati dall’idea che l’intelligenza è indifferente al sostrato materiale in cui è realizzata. In questo quadro di riferimento il programma di ricerca dell’intelligenza artificiale era il fiore all’occhiello che gli studiosi mostravano ai profani. Oggi la disciplina che funge da guida nella ricerca è la neuroscienza cognitiva e ciò inevitabilmente concentra l’attenzione degli studiosi sulla plausibilità psicologica e fisiologica delle teorie che vengono elaborate. Non passa settimana che non veniamo investiti da una nuova, o presunta tale, scoperta scientifica relativa al modo in cui il comportamento viene codificato nel cervello. La posta in gioco negli studi neuroscientifici non è indicare le basi neurofisiologiche dei processi cognitivi, ma scoprire come tutto ciò avviene. Gli studi di visualizzazione cerebrale, ad esempio, non mostrano soltanto dove un certo processo cognitivo ha luogo, ma come esso funziona. Se accettiamo questo programma di massima sarà facile comprendere perché è così forte in questo volume il duplice richiamo a due prospettive apparentemente contrastanti: quella evoluzionista e quella antropoanalitica. Nel primo caso non si tratta di ricercare nelle leggi dell’adattamento una scorciatoia causalistica, l’ennesimo homunculus che direziona e orienta tutte le spiegazioni verso una nuova escatologia, seppur priva dell’autorità teologica. Da questo punto di vista i secoli che ci separano da Darwin hanno smussato le passioni ideologiche di questo dibattito. Si tratta, al contrario, di evitare che il fascino di ipotesi precocemente formalizzate – rispetto a comportamenti che dipendono dalla brutale natura delle costituzioni filogenetiche e della selezione naturale – sovradeterminino le spiegazioni dei fenomeni che le scienze cognitive sperimentali inseguono metodicamente, vanificandone l’efficacia. In un certo senso il continuo confronto tra la storia evolutiva di strutture e funzioni e i fenomeni sperimentali che si vanno man mano rivelando, alla ricerca di spiegazioni continuamente rimodellate, a guisa di «regolo lesbio», può essere considerato una moderna versione del metodo vichiano contro la «sapienza riposta», allora individuata nella degenerazione dell’analitica cartesiana oggi diffusa nel riduzionismo computazionalista.
Anche il richiamo alla dimensione ontologica degli usi linguistici va considerato nella sua genuina natura filosofica. Non c’è dubbio, infatti che il campo di studi apertosi con la psicopatologia del linguaggio ha dimostrato che nessuna alterazione linguistico-cognitiva può essere compresa senza lo sforzo di ricostruire il processo di riadattamento dell’essere umano – dalla sua dimensione di specie sino a quella ultima del singolo individuo – all’interno di ciò che Wittgenstein chiamava «forme di vita» e che Binswanger ribattezzò «modalità di esistenza». Da questo punto di vista persino l’affermarsi del modello di ricerca delle neuroscienze nella fase attuale delle scienze cognitive mostra una sorta di insufficienza euristica. La contraddittoria individuazione delle anomalie cerebrali che sottostanno ai fenomeni patologici, o addirittura la loro impossibilità di essere esplicitate – come nel caso delle psicopatologie – ci convincono che, qualsiasi siano le forze operative sottese alla meccanica fisio-cognitiva delle lingue, la spiegazione dei disturbi mentali è sempre causata dal malfunzionamento di ciò che Pierre Janet nel 1903 chiamava già la «fonction du réel», la proprietà del linguaggio non di comunicare, ma di creare la rappresentazione della realtà.
Quest’ultima convinzione spiega l’apparente contraddizione tra le prospettive qui esplicitate. È proprio dalla storia evolutiva che cominciamo ad imparare, con sempre maggior ricchezza di dati, che la misura dell’evoluzione delle strutture filogenetiche del linguaggio corre parallela a quella delle funzioni. E le parallele non si incontrano mai. Ciò vuol dire che l’analisi delle analogie e dei progressivi affinamenti dei sistemi di comunicazione indica inequivocabilmente una continuità delle strutture, ma anche che la comparsa del linguaggio come un sistema di rappresentazione individuale e collettivo della realtà costituisce un punto di fuga irreversibile delle funzioni, una proprietà emergente non più ricostruibile con i mezzi di indagine sinora a disposizione.

ANTONINO PENNISI e PIETRO PERCONTI