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Soft Machine
di Elda Danese
 
 
 
Le forme di rappresentazione dell’ibrido umano-meccanico fondono in un'unica immagine i tratti salienti che distinguono ciascuna delle due entità: la rigidità e la freddezza delle macchine e la morbidezza e il calore del corpo umano. Da questo punto di vista l’espressione ‘soft machine’ è un evidente ossimoro, poiché attribuisce una qualità del corpo umano, la morbidezza, a un oggetto che è paradigma del rigido e dell’inanimato.
Nel gioco di ibridazione che ha accompagnato nei secoli la capacità umana di costruzione di mostri, l’uomo-meccanico o la macchina-umana rappresentano due facce della stessa inquietudine. Nell’immaginario del ventesimo secolo la tecnologia è stata rappresentata in un primo momento da mostri di metallo grandi e scuri, per trasformarsi successivamente nell’immagine luminosa degli schermi e delle nuove superfici, nella quale tuttavia viene conservato il tradizionale connotato di solidità e di rigidità delle macchine. Alla persistenza di queste forme di rappresentazione si contrappone la realtà di dispositivi e apparecchi sempre più piccoli, a volte invisibili o mutati nell’aspetto, fatto che contribuisce a trasformare il rapporto degli individui con la tecnologia: leggerezza e miniaturizzazione hanno reso possibile la vicinanza delle attrezzature elettroniche al nostro corpo e hanno creato una nuova dimensione personale nel rapporto con le tecnologie.
Nel processo di progressivo avvicinamento e penetrazione del corpo umano da parte di congegni elettronici, la pelle rappresenta la soglia principale, mentre la seconda pelle, il tessuto degli abiti, è quanto di più prossimo c’è ad essa. E’ questa una delle ragioni per cui una larga parte delle ricerche riguardanti le tecnologie è rivolta ai tessuti: la loro possibilità di veicolare congegni vicino al corpo costituisce un punto di fondamentale interesse per la progettazione dei wearable computer.
Da questo punto di vista, allora, i tessuti sarebbero il soggetto primo di una tendenza a trasformare le attrezzature, tramite l’impiego di medium flessibili, leggeri, elastici, in oggetti ‘soft’: un termine che, esprimendo vari significati (smooth, flexible, malleable, round, squashy) si presta a raffigurare l’idea di una trasformazione più estesa, di un nuovo modo di presentarsi delle macchine e della tecnologia.
Anche se ormai da tempo le plastiche hanno conquistato terreno tra i materiali che costituiscono non solo l’involucro, ma anche le parti interne di molte apparecchiature, le immagini che significano la tecnologia sono ancora legate alla lucentezza, alla solidità e alla rigidità del metallo. Come ci ricorda Ezio Manzini, a una cultura tecnica del solido si contrappone una cultura tecnica del solido-fluido”. La formabilità, caratteristica principale delle materie plastiche e ragione importante del loro successo, è stata evidenziata nelle forme tondeggianti, nei raccordi arrotondati di molti oggetti. Ma la crescente quantità di nuovi materiali e di compositi, adattabili a diversi aspetti e prestazioni, rende impossibile la loro identificazione con un aspetto caratteristico e definito: la realtà dei materiali è diventata di una complessità caleidoscopica.
In questo scenario i tessuti presentano una nuova prospettiva, quella di involucri che non hanno una forma propria, rivestimenti che si adattano alle mutazioni di forme topologiche, ai loro movimenti nello spazio, e che possono inoltre assolvere a funzioni comunicative, di intrattenimento, di monitoraggio ecc.
Infatti, nei wearable computer, come in altri oggetti tecnologici, il tessuto non è solo un involucro che contiene o sorregge le diverse parti: esso costituisce una componente che veicola informazioni, è il connettore di diverse funzioni all’interno di un sistema integrato di componenti elettroniche. Il tessuto è il mezzo che attraverso le fibre alimenta e connette le varie parti e il sistema di intreccio che le tiene incorporate tra i fili. Questo tipo di struttura permette ad un individuo di portare con sé un gran numero di congegni in grado di compiere molteplici funzioni: in questo modo i nostri abiti diventano macchine morbide.
Lo scambio tra abiti e macchine avviene però in una duplice direzione poiché, nonostante le parti tecnologiche siano diventate invisibili, alcuni abiti “rappresentano” la tecnologia attraverso materiali metallici, dettagli high-tech e forme aggressive. Se é vero che “non si può sfuggire alla moda” allora è probabile che anche la tecnologia sia diventata una forma della moda, che sia uno dei termini del linguaggio simbolico e comunicativo dei nostri abiti.
In questa situazione di scambio è interessante constatare come oggi, nella progettazione delle tecnologie personali, venga prestata una grande attenzione alla necessità di dare una forma comunicativa di carattere “emotivo” al loro aspetto, forma che i contenuti tecnologici fino a poco tempo fa sembravano porre in secondo piano. L’uso personale degli abiti, e oggi anche quello delle tecnologie, implica la loro prolungata vicinanza fisica e perciò una importante funzione significante nella costruzione e comunicazione identitaria degli individui, condizione che induce ad attribuire a questi oggetti significati emotivi ed espressivi. L’impatto di questi significati nel nostro rapporto con le cose è da tempo oggetto di interesse da parte di designer e produttori, consapevoli che “le soluzioni puramente tecniche hanno la vita corta quando nessuna corrente emotiva le sottende”, secondo un suggerimento di Alessandro Mendini. Questa consapevolezza ha contribuito a ridefinire l’aspetto delle nuove macchine, che si distinguono dalle loro antenate per la varietà dei colori, la consistenza e, più in generale, per l’aspetto “friendly”, favorendo l’instaurarsi di un rapporto di familiarità con la tecnologia.
Nella produzione di oggetti di uso personale, i tessuti si presentano sia nella funzione di superfici reattive o performative sempre più complesse, sia in quella di materiali che veicolano nuove significazioni emozionali. Trasformando i rigidi oggetti tecnologici in strumenti che ci avvolgono e ci accarezzano, ci viene offerta l’illusione che la macchina, “figlia nata senza madre” nella definizione di Francis Picabia, abbia finalmente trovato la mamma.
L’altra faccia di questa familiarità è stata emblematicamente rappresentata nella mostra Workspheres che si è tenuta al Museum of Modern Art di New York nel 2001. Anche se gli oggetti presentati in quell’occasione si possono considerare più delle riflessioni su alcuni comportamenti sociali che non dei progetti per reali prodotti d’uso, dalla mostra sono emersi alcuni esempi che sembrerebbero confermare quanto sostenuto sopra, con l’ulteriore suggerimento di una relazione tra la realtà di una tecnologia “morbida” la realtà del lavoro. In quella occasione, la designer olandese Hella Jongerius ha presentato degli oggetti che incorporano nei tessuti delle attrezzature elettroniche: è il caso di Soft Bed, un letto con uno schermo di computer inserito a una estremità della struttura morbida, mentre la tastiera e il mouse sono inseriti in uno “smart pillow” che funziona per mezzo di una tecnologia touch-sensor. In questo modo l’idea di un avvolgente confort si combina con quella di lavoro, come risulta evidente nelle parole della designer di Soft bed: “L’uso del colore e del tessuto aiuta a mettere da parte le associazioni negative che possono derivare dal portarsi il lavoro a casa”.