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X-phils. Una "nuova" tendenza in filosofia?
di Pietro Perconti
 
 
 
Ludwig Wittgenstein diceva che una volta che si sia trovata una risposta a tutte le domande scientifiche, non si sarebbe ancora fornita alcuna soluzione alle domande filosofiche. Oggi molti filosofi non sarebbero affatto disposti a seguire Wittgenstein su questo terreno. Richiamandosi in parte ad una tradizione diffusa nella modernità, che vedeva molti filosofi essere nello stesso tempo scienziati impegnati nei più diversi campi della conoscenza sperimentale, numerosi studiosi contemporanei di filosofia passano una buona parte del loro tempo tra gli scaffali delle discipline scientifiche.
Agli occhi di parecchi filosofi tradizionali una espressione come “filosofia sperimentale” suona come una sorta di ossimoro, ossia come una espressione che contiene al suo interno una contraddizione. Eppure, a guardare il panorama della ricerca attuale, sembra affacciarsi sulla scena una generazione di X-Phils, di filosofi sperimentali seguaci – appunto – della nuova Experimental Philosophy. Recentemente, un articolo di Jon Lackman apparso su “Slate” (http://www.slate.com/id/2137223/?nav=fo) e intitolato “The X-Philes. Philosophy meets the real world” ha avuto una certa eco nella discussione filosofica in rete. Lackman presenta la filosofia sperimentale come il tentativo di confrontarsi con il mondo reale. Ma a ben vedere c’è molto di più che questo generico appello alla realtà concreta.
Al “Laboratory for Logic and Experimental Philosophy” (LLEP) (http://www.sfu.ca/llep/) della Simon Fraser University (Burnaby, BC) vengono studiati soprattutto i contributi provenienti dalla logica e dalla biologia del linguaggio. All’EPL (“Experimental Philosophy Lab”) (http://philosophy.ucsd.edu/EPL/), promosso da Pat Churchland, si discute soprattutto di filosofia della mente e di neuroscienze. Anche gli studiodi dell’EPL (“The Experimental Philosophy Laboratory”) (http://mind.ucsd.edu/epl/), istituito presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di San Diego negli Stati Uniti, sono principalmente interessati all’intreccio tra cognizione, linguaggio, mente e implementazione neurale. “X-philosophy.com” (http://www.x-philosophy.com/) è una lista che conviene sottoscrivere per essere informati sull’argomento e che contiene un interessante insieme di risorse per coloro che sono interessati al rapporto tra la filosofia e le evidenze sperimentali. Ci sono recensioni di libri, liste di links e un progetto di una rivista on line dedicata al contributo che le evidenze sperimentali possono offrire alla discussione filosofica.
Vale la pena di consultare anche un blog specialistico: si presenta come “Experimental Philosophy. A blog dedicated to interdisciplinary research in philosophy, psychology, and legal theory” (http://experimentalphilosophy.typepad.com/experimental_philosophy
).
Oppure si può osservare come Steven Stich, della Rutgers University negli Stati Uniti, ha organizzato il suo seminario di filosofia sperimentale che tiene proprio questa primavera (Experimental Philosophy Seminar).
Joshua Knobe, del Dipartimento di Filosofia dell’Università della Nord Carolina-Chapel Hill, è un giovane filosofo molto impegnato nella tendenza che stiamo cercando di descrivere. In rete è disponibile un suo saggio sulle conseguenze che la filosofia sperimentale esercita a suo giudizio sulla filosofia del linguaggio, la teoria dell’azione e il dibattito sul libero arbitrio (http://www.unc.edu/~knobe/ExperimentalPhilosophy.pdf). Egli anima inoltre un sito specializzato sull’argomento: http://www.unc.edu/~knobe/ExperimentalPhilosophy.html).
Gli “X-Phils” sono studiosi piuttosto lontani dallo stile della filosofia continentale, che tradizionalmente affida le sue riflessioni alla interpretazione dei testi filosofici e alla loro meditazione. Ma è interessante notare quanto essi siano in conflitto anche con la filosofia analitica, nel cui ambito spesso lavorano. Quest’ultima, infatti, è spesso concepita in termini di analisi concettuale e, quando cerca il confronto con qualcosa di diverso dai concetti e dalla loro analisi linguistica, in genere si rivolge al senso comune. Ma non c’è alcuna garanzia che le evidenze sperimentali siano in accordo con il senso comune. È proprio da questa considerazione che Knobe parte nella sua definizione di cosa è la filosofia sperimentale, nella voce che egli ha scritto per il “Dictionary of philosophy of mind” (http://www.artsci.wustl.edu/~philos/MindDict/). Spesso nelle argomentazioni filosofiche compaiono dei riferimenti a ciò che la gente ordinariamente pensa o dice. Ma si tratta di dati che vengono considerati come non controversi. Nessuno si prende la briga di verificare cosa ci sia davvero dentro la scatola nera del senso comune. Secondo Knobe la filosofia sperimentale nascerebbe proprio dal desiderio di operare tale verifica.
Il suo campo d’azione si sarebbe finora dedicato soprattutto a quattro aree. La prima riguarda il fatto che ci sono evidenze che suggeriscono che le considerazioni morali delle persone possono influenzare l’applicazione di certi concetti della psicologia del senso comune. Per esempio, la sensazione che un comportamento sia stato compiuto in modo intenzionale o meno può essere influenzato dal significato morale attribuito al comportamento. La seconda area di studi sfida l’idea che le persone comuni siano naturalmente “incompatibiliste”, ossia che credano davvero che un individuo non può essere moralmente responsabile di un comportamento, se questo è causalmente determinato. La terza area di interesse per i filosofi sperimentali mette in discussione le credenze più diffuse circa le convinzioni meta-etiche attribuite al senso comune, mentre la quarta riguarda le differenze “cross-culturali” relative alle opinioni semantiche, soprattutto quelle relative ai nomi propri.
Oggi il campo delle tesi in competizione relativamente alla semantica dei nomi propri è conteso tra le teorie descrittiviste, secondo le quali il significato dei nomi propri consisterebbe in una o più descrizioni che possono essere sostituite con il nome corrispondente senza mutare il valore di verità delle frasi in cui esse compaiono, e le teorie causali del riferimento, secondo cui i nomi propri non avrebbero alcun senso (fregeano) e si riferirebbero direttamente ai loro individui tramite una opportuna catena causale iniziata con un battesimo. Tra gli studiosi prevale l’ipotesi della catena causale del riferimento, il cui principale esponente è il filosofo americano Saul Kripke. Ciò che è interessante notare in questa sede è che la tesi kripkiana è stata elaborata e ancora oggi viene generalmente difesa affidandosi in modo sistematico alle intuizioni dell’interlocutore relativamente a ciò che accadrebbe al riferimento dei nomi propri in certe (strane) situazioni controfattuali (se, per esempio, un certo Herr Smith invece di Hitler avesse ordinato lo sterminio degli ebrei durante il nazismo, e altre fantasie di questo genere).
Ma che succederebbe se si scoprisse che tali intuizioni variano culturalmente? È quello che si sono chiesti E. Machery e i suoi colleghi in uno studio pubblicato su “Cognition” nel 2004 (Semantics, Cross-Cultural Style, Cognition, 92, 2004, B1-B12; http://www.cofc.edu/~nichols/SemanticIntuitions.htm). Secondo la loro ricostruzione, le reazioni alle fantasie controfattuali kripkiane da parte delle persone che vivono in estremo Oriente è diversa da quella di coloro che vivono negli Stati Uniti e in Europa. Ciò che è interessante notare è che il maggior favore che gli occidentali spontaneamente accordano alle intuizioni (realiste) di Kripke dipenderebbe dalla loro abitudine, culturalmente determinata, a formulare i loro giudizi in termini causali. Non ne sappiamo ancora abbastanza per affermare se questo genere di dubbi è in grado di far cadere veramente l’edificio della teoria causale dei nomi propri.
Occorre però notare come vi sia un altro genere di evidenza sperimentale che le si oppone. Ci sono, infatti, anche evidenze di tipo neuropsicologico che suggeriscono che le informazioni descrittive associate a un nome proprio mediano il suo riferimento (T. Valentine; S. Bredart; R. Lawson; G. Ward, The Cognitive Psychology of Proper Names, London, Routledge, 1996). Anche questi dati contrastano con la teoria di Kripke, benchè da una prospettiva differente. Si nota quindi come una teoria filosofica possa essere sfidata da due generi di evidenze sperimentali. Il primo genere di evidenze mette in dubbio che il senso comune, a cui la filosofia affida fiduciosa la sua argomentazione, sia davvero una base universale e salda. Il secondo tipo di evidenze suggerisce invece che la tesi filosofica in questione non ha la plausibilità psicologica che dovrebbe avere.
Il caso dei nomi propri, che abbiamo preso come spunto esemplificativo, consente di mettere in luce come in generale la filosofia sperimentale possa essere praticata i due sensi differenti. Da una parte essa può rispondere all’esigenza di verificare quanto le intuizioni del senso comune siano sperimentalmente fondate. Dall’altra parte può trattarsi di controllare le affermazioni filosofiche ricorrendo alle evidenze delle scienze sperimentali. In questo secondo caso i filosofi sono chiamati a praticare la loro ricerca in collaborazione con gli scienziati o almeno a tener conto del loro lavoro nel formulare le proprie tesi. Ma, in entrambe le circostanze, sembra che i dati sperimentali bussino alla porta del pensatoio del filosofo e che questi non possa più far finta di non sentire il baccano che c’è là fuori.