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Lo spettro invertito: un esperimento solo mentale?
di Carmelo Calì e Claudia Rosciglione
 
 
 
La validità di diverse ipotesi filosofiche si misura non solo sulla coerenza e sostenibilità delle tesi implicate, ma anche sulle evidenze che esse propongono per orientare l’analisi dei fenomeni caratterizzanti l’esperienza ordinaria di noi stessi, del mondo che ci circonda e degli altri. Rispetto a tali evidenze ci si chiede se e in che misura esse debbano corrispondere alle intuizioni che noi assumiamo su vari aspetti della nostra esperienza; ciò spesso si accompagna alla formulazione di esperimenti mentali. In questo esercizio ideale, la filosofia sembra proprio ritrovare la scienza e in particolare la proposta di Einstein di ricorrere alla formulazione di casi limite praticamente irrealizzabili in cui immaginare condizioni che, per quanto non direttamente osservabili, possano fornire indicazioni logiche su ben determinate conseguenze e proprietà fisiche.
Da questo punto di vista, il ricorso a esperimenti mentali è un aspetto non secondario dell’incontro cui oggi assistiamo tra filosofia e scienza. Se così stanno le cose, però, intendiamo chiederci a quali condizioni un esperimento mentale possa dare indicazioni sulla spiegazione filosofica di un certo fenomeno ed essere impiegato per discriminare tra diverse evidenze e intuizioni sia filosofiche che ordinarie.
Immaginiamo un individuo, lo chiameremo - come ci suggerisce Tim Crane - Inverso, il quale percepisce lo spettro dei colori in modo invertito rispetto ad una persona normale, la chiameremo Norma. Quando quest’ultima vede rosso, Inverso vedrà sistematicamente verde e viceversa. Inoltre, Inverso anche se vede l’erba rossa continuerà a dire che è verde e a credere che sia verde uniformemente a quello che dice e crede Norma e così per tutti gli altri colori. La diversa percezione del colore, dunque, non potrà essere scoperta.
Quale scenario prospetta questo esperimento mentale? Proviamo a delinearlo: Ci sarebbero (1) delle esperienze fenomeniche diverse (quella di Inverso a cui l’erba appare rossa e quella di Norma che, invece, vede l’erba verde); (2) lo stesso contenuto intenzionale poiché sia Inverso che Norma direzionano la loro percezione verso qualcosa nel mondo che è lo stesso per entrambi; (3) l’uso delle stesse parole per riferirsi a quel qualcosa del mondo, sia Inverso che Norma, infatti, chiamano l’erba “verde”. Si dovrebbe, dunque, concludere che è impossibile accorgersi esternamente che esistono esperienze fenomeniche diverse, le quali avrebbero una natura soggettiva in prima persona non osservabile, non esperibile in terza persona.
La prima sfida filosofica, ma non soltanto, che l’esperimento dello spettro invertito sembra lanciare è quella scettica, ossia l’impossibilità di conoscere il carattere fenomenico, soggettivo di un’altra persona. Questo andrebbe a rafforzare l’ìpotesi antifisicalista ed antiriduzionista di Thomas Nagel per cui esisterebbero dei fenomeni mentali soggettivi che sfuggono alle leggi della fisica e all’indagine della neuroscienza creando così quello che John Searle chiama “il mistero della coscienza”.
L’esperimento sembrerebbe, inoltre, creare delle difficoltà anche ai sostenitori di un’ipotesi funzionalista. Per il funzionalismo, la mente è riconducibile alle attività cognitive suscettibili di una spiegazione del ruolo causale che esse svolgono nella cognizione e nel comportamento dell’agente. Se ci sono, però, esperienze fenomeniche diverse (Inverso vede rosso dove Norma vede verde) pur non essendoci cambiamenti a livello funzionale e comportamentale (Inverso usa gli stessi termini di Norma per riferirsi agli stessi oggetti e si relazionerà ad essi nello stesso modo di Norma), non sarà possibile spiegare la mente in termini funzionali a meno di negare le qualità fenomeniche che caratterizzano l’esperienza .
Per Daniel Dennett la questione non sarebbe affatto conclusa . Egli, infatti, sostiene che, se non ci sono differenze funzionali, non avrebbe senso parlare di percezione invertita dei colori: se il ruolo causale di un colore non muta ed esso non muta nel caso di Inverso e Norma, allora non avrebbe senso dire che esista un quale che è cambiato, è invertito e che ci sarebbero esperienze fenomeniche diverse. Dal suo punto di vista, quindi, di ciò che non è descrivibile funzionalmente, come l’esperienza fenomenica, è inutile parlare poiché neanche esisterebbe. Il problema, però, di quanto della nostra esperienza siamo disposti a rinunciare rimarrebbe. A questo proposito Riccardo Manzotti e Vincenzo Tagliasco propongono di trarre dall’esperimento delle conseguenze diverse: se si considerano le esperienze fenomeniche come quella parte di realtà uguale per tutti, in questo caso lo spettro fisico della luce, che entra a far parte del soggetto nei termini di un contenuto intenzionale causalmente determinato, allora non si può accettare che soggetti che entrino nella stessa relazione intenzionale con il medesimo gruppo di eventi causali abbiano esperienze fenomeniche differenti. Se l’esperienza è parte della realtà, assumendo una sorta di realismo intenzionale, allora si potrebbe non essere costretti a negare l’esistenza di aspetti qualitativi dell’esperienza o a relegarli all’epifenomenismo.
Una variazione interessante di questo esperimento è quella - proposta da Ned Block - della “Terra Invertita”: si immagini l’esistenza di un pianeta che è assolutamente identico alla terra, salvo che per una totale inversione dello spettro della luce a partire dal ribaltamento della posizione dei colori complementari. Sulla terra invertita (TI), quindi, il cielo apparirà giallo, l’erba rossa, il fuoco verde, le banane blu, anche se i suoi abitanti continueranno a indicarli rispettivamente con gli stessi termini di colore usati sulla terra poiché anche il dizionario in uso su TI è invertito. Si supponga che uno scienziato a vostra insaputa vi renda incoscienti, impianti degli spettrometri e dei filtri che invertano i colori nei vostri occhi, muti il colore della vostra pelle in modo che tutto vi sembri normale al vostro risveglio dopo avervi trasportato su TI. Secondo Block, il modo in cui le cose vi appaiono su TI rimane identico a quanto accadeva sulla terra e voi stessi non noterete alcuna differenza nel modo in cui vi sentite quando interagite con il nuovo mondo. Durante la vostra permanenza su TI, però, la base causale che costituisce il riferimento dei termini di colore è gradualmente mutata fino al punto che, trascorsi oramai 50 anni, di fronte all’erba di un prato avrete uno stato qualitativo identico a quello sperimentato in passato sulla terra, che però avrà un ruolo funzionale e intenzionale invertito, poiché il colore che causa l’apparenza invertita, che giustifica l’uso del termine di colore (“verde”), ne soddisfa il riferimento e motiva il vostro comportamento è nel frattempo mutato da verde in giallo. Abbastanza, quindi, secondo Block, per rigettare la teoria funzionalista degli stati qualitativi e per distinguere contenuto fenomenico e intenzionale.
A mettere in dubbio però la validità euristica e l’efficacia stessa dell’esperimento dello spettro invertito è Searle: se non si vuole considerarne la versione standard soltanto un esercizio di scetticismo filosofico, bisognerebbe chiedersi se e come il caso di Inverso possa essere materia di ricerca neurofisiologica. Infatti, se nessun soggetto possiede questa inversione per cui tutti gli esseri umani, che non sono daltonici, hanno tutti i recettori dei colori al posto giusto, non potremmo che concluderne che tutti vedono i colori alla stessa maniera grazie anche al conforto dell’evidenza empirica.
Viene, dunque, naturale chiedersi se, per essere considerato valido, basta che un esperimento mentale sia semplicemente immaginabile o, invece, è necessario che sia anche possibile e, in questo caso, solo logicamente possibile o anche scientificamente plausibile e consistente con alcuni vincoli della nostra esperienza condivisa?
Se l’esperienza di Inverso non richiedesse alcuna disfunzione o mutamento nelle connessioni neuronali relative alla percezione cromatica, sembra difficile che l’argomento sia qualcosa di più di un esercizio retorico. Dal punto di vista logico, per esempio, immaginare semplicemente che il fulmine non sia una scarica elettrica non dimostra ancora né che ciò sia possibile né che la sua natura sia effettivamente diversa. Se, d’altra parte, la percezione di Inverso richiede una differente conformazione dei recettori o delle connessioni neuronali, allora avremmo delle differenze che comportano anche delle differenze funzionali, senza tuttavia che ciò sia già una prova a favore del funzionalismo. Infatti, non ogni tipo di inversione fisiologica o neurologica è in grado di supportare l’esperienza attribuita a Inverso. L’esperimento si regge sul fatto di considerare astrattamente solo una dimensione della percezione del colore e sull’assunzione non esplicitata che è l’identità dello spettro fisico della luce a garantire la corrispondenza sistematica dell’inversione e l’equivalenza funzionale delle esperienze cromatiche di Inverso e Norma, nonostante la loro variabilità. L’esperimento si concentra solo sulla differenza delle tinte, trascurando che la loro percezione è correlata anche ai valori di saturazione, chiarezza, e brillantezza, il che istituisce una serie di relazioni asimmetriche nello spazio dei colori percepiti. Per esempio: i blu e i viola più saturi appaiono più scuri dei verdi e rossi più saturi, che a loro volta appaiono più scuri dei gialli e rossi più saturi. Secondo Stephen Palmer, quindi, se l’inversione riguardasse il blu e il giallo, allora l’esperienza del giallo di Inverso dovrebbe corrispondere a quella del blu-verde di Norma, ma ciò comporterebbe che Inverso giudichi il giallo più scuro di quello che è per Norma, la quale potrebbe rilevare la differenza. L’inversione sarebbe più plausibile se riguardasse il rosso e il verde, le cui differenze di chiarezza sono meno marcate e, quindi, influirebbero meno nella percezione delle particolari sfumature di blu e gialli. Per Palmer, questa inversione potrebbe realizzarsi biologicamente combinando le mutazioni che comportano due forme diverse di daltonismo. Bruce MacLennan invece ritiene che un qualsiasi caso di inversione non sia conciliabile in nessun modo con la fenomenologia dei colori e i risultati delle attuali scoperte psicofisiche, fisiologiche e neurobiologiche: l’inversione di chiaro e scuro comporterebbe l’irriconoscibilità delle forme e delle tinte; quella di blu e giallo andrebbe incontro alle difficoltà esposte da Palmer; quella di rosso e verde potrebbe non essere possibile perché al rosso puro non corrisponde nessuna luce monocromatica, come invece per il verde l’altra coppia di opponenti (giallo/blu). A suo avviso, ogni inversione nella percezione dei colori presupporrebbe un cambiamento radicale nel rapporto tra lo spettro luminoso e i suoi valori, la neurofisiologia e lo spazio dei colori, rendendo assai difficile una piena corrispondenza nei giudizi di similarità/differenza tra le tinte e le varie sfumature di Inverso e Norma.
Nella variante di Block, invece, si introduce la differenza di composizione dello spettro tra la terra e TI: quanto è lecito - si chiede David Cole - dunque ritenere che il blu intenso percepito sulla terra e su TI, causati da un blu e un giallo saturo corrispondenti a spettri diversi, sia esattamente la stessa esperienza qualitativa?
In che senso, poi, essa soddisfa esattamente le stesse relazioni funzionali? Perché la differenza tra il terrestre e gli abitanti di TI non sia rilevata, bisogna assumere che essi reagiscano di fronte al verde del fuoco di TI come il terrestre reagisce a ciò che continua a vedere rosso e che tutti condividano le stesse associazioni tra il colore designato comunemente con “rosso” e il fuoco, il pericolo, la fuga...
Seguendo poi le ricerche di Bohren Craig e Fraser Alistair sulla fisica e la percezione dei fenomeni atmosferici potremmo chiederci: in che modo lo spettro invertito garantisca che il terrestre abbia tramite le lenti invertenti esattamente la stessa percezione di tutte le sfumature che i fenomeni naturali gli offrivano sulla terra? La composizione dello spettro dovrebbe essere tale da garantire l’equivalente del rosso al tramonto, della maggiore chiarezza del cielo all’orizzonte fino alla bianchezza su un angolo di 5 gradi, della macchia violetta che appare al di sopra del punto in cui il sole scompare dieci minuti dopo il tramonto. Una semplice inversione totale dello spettro sarebbe in grado di produrre sempre lo stesso fenomeno solo grazie alle lenti invertenti anche in questi casi di complesse relazioni cromatiche?
Considerando la questione ancora aperta, cosa accadrebbe se confrontassimo l’esperimento mentale dello spettro invertito con i seguenti casi: (1) un soggetto che indossa degli occhiali a polarità invertita sulla terra per un periodo di tempo determinato; (2) un soggetto con una sensibilità lievemente anomala per alcune lunghezze d’onda senza che ciò comporti il daltonismo; (3) un soggetto affetto da una qualche forma di daltonismo; (4) un soggetto in cui intervenga un trauma cerebrale che lo rende incapace di percepire i colori, come narrato da Oliver Sacks?

Bibliografia

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(Carmelo Calì e Claudia Rosciglione, FIERI, Dipartimento di Filosofia e Critica dei Sapere, Università di Palermo - http://fieri.unipa.it/home.php)