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Scenari > Natura | |||||||||||||
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Nel corso della storia della filosofia, il termine ‘naturalismo filosofico’ è stato applicato a un gran numero di concezioni: da quelle proposte dai filosofi ionici all’aristotelismo; dal pensiero democriteo ed epicureo al panteismo di Telesio, Bruno e Campanella; dallo spinozismo alla filosofia scozzese di Hume, da una parte, e di Reid, dall’altra; dal positivismo ottocentesco al pragmatismo; dal realismo critico di Santayana all’empirismo logico. Sarebbe tuttavia difficile trovare punti di intersezione tra tutte queste dottrine, al di là di un generico riferimento all’ambito del ‘naturale’ quale oggetto d’indagine della filosofia. Oggi, però, il termine ‘naturalismo’ ha assunto connotazioni meno erratiche ed è possibile individuare alcuni tratti comuni nelle principali concezioni cui viene applicato. Prima di considerare questi tratti comuni, occorre notare che il naturalismo contemporaneo può avere un carattere generale oppure uno più circoscritto. Nel primo caso – che in questa sede è il più interessante – tale concezione assume carattere metafilosofico generale e pretende di applicare le proprie assunzioni, i propri metodi e i propri obiettivi alla discussione di tutti i problemi filosofici – magari solo per mostrarne l’illegittimità. Ma il naturalismo può essere declinato anche in forma più circoscritta – ciò che accade quando la prospettiva naturalistica si concentra su uno specifico problema filosofico (come, per esempio, il significato degli enunciati etici, lo statuto ontologico degli enti matematici oppure la questione del libero arbitrio), ma non necessariamente all’indagine filosofica nel suo complesso. Considerando dunque il naturalismo contemporaneo come concezione metafilosofica generale, occorre distinguerne almeno due famiglie principali, le quali pur condividendo alcuni assunti filosofici fondamentali, si distinguono sotto alcuni importanti rispetti. Queste due concezioni possono essere rispettivamente battezzate ‘naturalismo scientifico’ e ‘naturalismo liberalizzato’: la prima concezione è quella oggi maggioritaria, ma la seconda ha conosciuto, negli ultimi, anni una rapida ascesa. Per ragioni di spazio, in questo saggio mi potrò concentrare solo sul naturalismo come concezione metafilosofica, con particolare riguardo alla famiglia di concezioni che ho chiamato ‘naturalismo scientifico’; incidentalmente, però, dirò qualcosa anche sul naturalismo liberalizzato. Il naturalismo scientifico – che, come detto, è la forma di naturalismo oggi più comune – si caratterizza, a mio giudizio, per tre tesi fondamentali (la terza delle quali è contestata dal naturalismo liberalizzato, che invece accetta le prime due). La prima di queste tesi può essere chiamata ‘Tesi costitutiva’. Secondo questa tesi, la filosofia deve evitare ogni appello ad entità, proprietà, eventi o spiegazioni soprannaturali. Naturalmente, tale tesi è facilmente condivisibile nella misura in cui implica che la filosofia contemporanea (almeno nel caso in cui voglia dirsi naturalistica) non può richiamarsi a concetti come la mente immateriale, l’anima, il primo motore immobile ecc. Le implicazioni di tale tesi divengono però immediatamente controverse se si considerano concetti come quelli relativi alle entità astratte, ai valori, alle proprietà mentali non-sopravvenienti su quelle fisiche e così via. Nemmeno questi concetti, infatti, paiono – almeno al momento – trattabili in modo soddisfacente con le categorie delle scienze naturali, come riconoscono anche molti filosofi naturalisti; e, tuttavia, al contrario di concetti come mente immateriale e primo motore immobile, non è immediatamente ovvio che essi possano essere catalogati come obsolescenti reliquie metafisiche e gettati nel dimenticatoio della filosofia. Ma, allora, come devono comportarsi i filosofi naturalisti rispetto a concetti delicati come quelli relativi alle entità astratte, ai valori ecc.? Detto diversamente: è vero, come sostengono molti, che rispetto a questi concetti si presentano solo due possibilità ai fautori del naturalismo (continuare a tentare di ridure tali concetti a concetti scientificamente accettabili oppure eliminarli del tutto dal vocabolario filosofico), perché la loro accettazione comporterebbe ipso facto la ricaduta nel soprannaturalismo? Oppure hanno ragione coloro che affermano che non tutto ciò che è irriducibile ai concetti delle scienze naturali è necessariamente sovrannaturale? La morale di questa discussione è che l’estensione della categoria del ‘sovrannaturale’ dipende da come si definisce la complementare categoria del ‘naturale’ - che è proprio ciò che è in questione nel dibattito tra i fautori del naturalismo scientifico e di quello liberalizzato. Mentre i primi, infatti, tendono a rifiutare tutte le entità e proprietà refrattarie alla naturalizzazione, i fautori del naturalismo liberalizzato sostengono, con minore estremismo ontologico, che l’ambito di ciò che è naturalisticamente accettabile è più vasto dell’ambito di studio delle scienze della natura. Harty Field, uno dei maggiori e più coerenti fautori del naturalismo scientifico, per esempio, propone di limitare molto fortemente l’ambito del naturale: in particolare, esso comprende soltanto l’ambito del fisico (e ciò che ad esso può essere ridotto). In questo spirito fisicalistico, per esempio, Field scrive: «Quando ci troviamo di fronte a un complesso teorico... che pensiamo non possa avere alcun fondazione fisica, noi tendiamo a rigettare quel complesso teorico».(1) È vero che alcuni naturalisti scientifici hanno un atteggiamento più aperto di quello di Field, in quanto accettano come legittimi i complessi teorici di tutte le scienze naturali (che essi abbiamo una ‘fondazione fisica’ o meno); nondimeno, anche costoro denunceranno come filosoficamente inaccettabili tutti i concetti non riconducibili all’apparato delle scienze naturali, sia pure inteso in questo senso più ampio. Di diverso avviso, invece, saranno fautori del naturalismo liberalizzato come John McDowell, Hilary Putnam, Donald Davidson o Barry Stroud. (2) Riassumendo: tutti i naturalisti accettano la Tesi Costitutiva; essi, tuttavia non sono concordi su quanto permissiva possa essere la definizione dell’ambito del ‘naturale’ (e, di conseguenza, anche del ‘soprannaturale’). Ma, oltre alla Tesi Costitutiva, il naturalismo scientifico è connotato anche da altre due tesi, sinteticamente esposte dal Maestro di questa concezione, W.V. Quine, nella seguente citazione: “Io accetto il naturalismo ed, anzi, ne faccio un vanto. Ciò significa bandire il sogno di una filosofia prima e sviluppare la filosofia ... come parte del nostro sistema del mondo, in continuità con il resto della scienza.” (3) In questa citazione sono dunque menzionate due importanti tesi naturalistiche: una che possiamo chiamare ‘Tesi Antifondazionale’, comune sia al naturalismo scientifico sia a quello liberalizzato, e quella che possiamo chiamare ‘Tesi della Continuità’, che è invece propria solo della prima concezione e fermamente avversata dai fautori della seconda. La Tesi Antifondazionale è stata più volte esposta da Quine: a suo parere è indispensabile che si abbandoni il sogno della ‘filosofia prima’, che si cessi, cioè, di concepire la filosofia come fosse «prioritaria rispetto alla scienza naturale». (4) In quest’ottica, dunque, i filosofi devono abbandonare il progetto aristotelico, cartesiano e kantiano secondo il quale la filosofia offre un punto di vista esterno privilegiato – un «punto di vista da nessun luogo», come ironicamente lo definisce Thomas Nagel –, (5) in grado di legittimare le varie scienze. Per Quine e per gli altri naturalisti contemporanei (sia quelli che propugnano il naturalismo scientifico sia quelli che propendono la versione liberalizzata), tale punto di vista esterno non esiste affatto. Più controversa è la Tesi della Continuità, che infatti è accettata solo dai naturalisti scientifici, ma non dai fautori del naturalismo liberalizzato. Secondo questa tesi, la filosofia è, in sé, una parte della scienza. Come spiegato da Quine nella citazione sopra riportata, infatti, occorre concepire la filosofia, non come attività autonoma, ma piuttosto come «parte del nostro sistema del mondo, in continuità con il resto della scienza» (dove, come al solito, la parola ‘scienza’ significa meramente ‘scienza naturale’ e forse solo ‘fisica’). Questa tesi ha conseguenze importanti. Come abbiamo visto, infatti, per il naturalismo contemporaneo in generale non esiste alcuna Filosofia Prima; per il naturalismo liberalizzato, tuttavia, ciò non significa affatto che non vi siano discipline prioritarie: questa prerogativa, infatti, va riconosciuta alle scienze naturali – e secondo alcuni alla sola fisica. In questa prospettiva sono solo le scienze naturali, infatti, a fornire conoscenza genuina. E tali scienze possono legittimare le pretese conoscitive degli altri ambiti (dalle scienze umane alle arti al senso comune alla metafisica): una legittimazione che è possibile se, e solo se, le spiegazioni degli altri ambiti possono essere ricondotte al modello esplicativo delle scienze naturali (mentre gli ambiti per cui ciò non fosse possibile dovrebbero rinunciare a ogni pretesa conoscitiva). In sostanza, allora, secondo la prospettiva del naturalismo scientifico la veneranda Philosophia Prima va sostituita con la Scientia Prima. Con le parole di Quine: «La realtà deve essere identificata e descritta nell’ambito della scienza stessa e non in una presunta filosofia prioritaria». (6) O come brillantemente si esprime Wilfrid Sellars, parafrasando il famoso motto protagoreo: «per quanto riguarda la descrizione e la spiegazione del mondo, la scienza è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono, in quanto non sono». (7) Infine, anche Daniel Dennett si esprime nello stesso spirito: “La mia ispirazione fondamentale è il naturalismo, l’idea secondo la quale le indagini filosofiche non sono superiori né preliminari, alle indagini delle scienze naturali, ma agiscono in armonia con tali scienze, nell’andare alla ricerca della verità.” (8) Da queste citazioni, si desume che per i naturalisti scientifici la scienza definisce interamente l’ambito di ciò che può essere descritto e spiegato; ma allora la filosofia (se non vuole diventare mero flatus vocis) non può che occuparsi dello stesso ambito della scienza: ovvero dell’ambito del naturale. Ma anche rispetto agli scopi della propria indagine, la filosofia non differisce dalla scienza della natura: entrambe, infatti, ricercano la verità rispetto al mondo naturale. Per continuare a citare Dennett, i filosofi «non possono pensare di rispettare il loro dovere professionale, a meno che non prestino attenzione al pensiero degli psicologi... degli economisti... dei biologi». (9) La missione dei filosofi, infatti, è quella di «chiarire e unificare le prospettive spesso divergenti [delle scienze] in una singola visione dell’universa». Ritorna, dunque, la filosofia sistematica: ma solo nel senso che le prerogative di sistematicità di questa disciplina vanno messe al servizio delle scienze naturali. Secondo i naturalisti scientifici, dunque, per quanto riguarda il proprio oggetto e le proprie finalità la filosofia non si distingue veramente dalla scienza. Resta la possibilità che il naturalismo scientifico lasci alla filosofia almeno l’autonomia metodologica. Ma anche questa possibilità è, in realta, illusoria: la maggior parte dei naturalisti scientifici, nella sostanza, nega, che si dia qualcosa come un metodo peculiarmente filosofico. Anzi, da questo punto di vista, il naturalismo filosofico è molto diverso dalla filosofia analitica classica, dalla quale pure, per alcuni aspetti, discende. Per i fondatori della filosofia analitica, e per molti dei loro continuatori, la filosofia si caratterizza metodologicamente per il rilievo che vi assume l’analisi concettuale («Scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri», si legge nel Tractatus). (10) Al contrario, secondo molti naturalisti scientifici l’analisi concettuale non è metodo legittimo per la filosofia, anche perché pretende di procedere per mezzo di puri giudizi analitici che, come ha mostrato Quine, in realtà non sono possibili. (11) In questa prospettiva, una volta perduta la classica funzione fondazionale, alla filosofia non resta che il mero compito di sistematizzare i risultati scientifici. Anzi, i più estremi tra i naturalisti scientifici parrebbero non lasciare alla filosofia nemmeno la consolazione dell’attività classificatoria. Così, per esempio, scrive Quine a proposito di una delle branche fondamentali della filosofia, la teoria della conoscenza (che è poi l’ambito filosofico da cui il naturalismo scientifico contemporaneo ha preso le mosse): «L’epistemologia, o qualcosa di simile, trova il suo posto come capitolo della psicologia e quindi della scienza naturale. Essa studia un fenomeno naturale, cioè un soggetto umano fisico». (12) Nella prospettiva quineana, dunque, una volta naturalizzata, l’epistemologia diviene null’altro che psicologia (che potenzialmente è a sua volta null’altro che neurofisiologia e così via, attraverso le riduzioni naturalistiche, sino alla microfisica). Naturalmente, un epistemologo tradizionale domanderebbe ai naturalisti scientifici: «Ma voi come pensate di dare conto del carattere normativo della teoria della conoscenza, del suo essere necessariamente dipendente, per esempio, dall’idea che esistano buone e cattive giustificazioni delle nostre credenze?». A questa obiezione, Quine rispondeva, con candida baldanza, che «l’epistemologia normativa è una branca dell’ingegneria». (13) Il che implica che l’epistemologia non è più normativa di quanto lo siano l’idraulica o l’elettrotecnica – cioè essa è un’impresa solo apparentemente normativa, ma in realtà meramente descrittiva! Perciò, a parere dei più autorevoli naturalisti scientifici, per quanto riguarda oggetto, finalità e metodo, la filosofia deve modellarsi sulle scienze naturali. Ma allora viene da chiedersi perché dovremmo preoccuparci della filosofia in quanto tale. Forse, se hanno ragione i naturalisti scientifici, non dovremmo preoccuparcene poi molto. Ma hanno ragione? In realtà, il naturalismo scientifico è quantomeno controverso (a voler essere benevoli), se non molto implausibile (a voler essere più tendenziosi). Vi sono varie ragioni, in effetti, per ritenere che l’attuale entusiasmo per il naturalismo scientifico non sia giustificato. Qui posso solo menzionare alcune di esse, senza entrare nei dettagli. In primo luogo, come mostrato da John Dupré e molti altri, i naturalisti scientifici idealizzano indebitamente la scienza contemporanea, quando la descrivono come metodologicamente unitaria. In effetti, se si guarda, con occhio sanamente empiristico, allo stato presente delle scienze naturali, si constaterà che idee come l’Unità della scienza o la Completezza della fisica (molto comuni tra i naturalisti scientifici) altro non sono che miti filosofici – e anzi, come nota Dupré, miti sovrannaturalistici, in quanto, almeno attualmente, ad essi non corrisponde alcuna evidenza nel mondo naturale. Così, paradossalmente, il naturalismo scientifico contraddice la sua stessa Tesi costitutiva, secondo la quale in filosofia nessun appello al soprannaturale (ovvero a ciò che non ha fondamento nell’evidenza empirica) è legittimo. Un’altra ragione per dubitare le presunte virtù del naturalismo scientifico è illustrata da Barry Stroud nel suo splendido The Charm of Naturalism. (14) In quel saggio, Stroud mostra come i tentativi dei naturalisti scientifici di ridurre di ridurre o eliminare i predicati che fanno riferimenti ai valori, ai colori o al significato non possono che fallire, perché tali tentativi presuppongono che, preliminarmente ad ogni riduzione o eliminazione, si possa esprimere il contenuto delle nostre credenze sui valori, i colori e i significati; ma ciò è un compito semplicemente non eseguibile con le magre risorse concettuali del naturalismo scientifico. In realtà, il naturalismo scientifico ha un atteggiamento ‘puritano’ (per riprendere l’ironico termine di Stephen Stich) (15) nei confronti di molti dei concetti fondamentali non soltanto della filosofia, ma in generale delle nostre pratiche e, per dirla con Wittgenstein, delle nostre ‘forme di vita’. In sostanza, i naturalisti scientifici pretendono di ridurre o eliminare dal discorso filosofico i concetti concernenti l’intenzionalità, la normatività, la coscienza, la libertà, la giustificazione. Dal loro punto di vista ciò è comprensibile, in quanto il naturalismo scientifico implica che, in qualche misura, questi concetti siano queer [strani], per riprendere la nota formulazione di John Mackie, e per questo essi debbano essere rimpiazzati da concetti naturalisticamente kosher (se non eliminati del tutto). Sulla scorta di queste premesse, non sorprenderà che negli ultimi anni sia stato sviluppato un gran numero di tentativi di naturalizzazione. Peccato, allora, come ha scritto ironicamente Putnam, che «nessuna di queste riduzioni ontologiche venga creduta da alcunchì, con l’eccezione del proponente e di uno o due dei suoi amici e/o studenti». (16) Che i tentativi di naturalizzazione dei concetti queer non abbiano successo è innegabile, al punto che lo riconoscono persino i più imparziali (o più spregiudicati?) tra i naturalisti scientifici. Un esempio molto chiaro in questo senso è offerto da Colin McGinn. Nel più puro spirito scientifico, McGinn assume che “[l]a natura è un sistema di entitità derivate, in cui le entità più fondamentali costituiscono le meno fondamentali; così, comprendere la natura equivale a capire come procede tale derivazione... Troviamo gli atomi e le leggi della combinazione e dell’evoluzione e poi derivamo la miriade di oggetti complessi che si trovano in natura.” (17) Questa impostazione non è affatto privo di conseguenze filosofiche, se, nel riflettere sullo statuto filosofico dei concetti queer – la coscienza, l’Io, il libero arbitrio, il significato e la conoscenza – lo stesso McGinn riconosce che “[t]ra questi fenomeni e i fenomeni più fondamentali da cui essi derivano si aprono enormi baratri, così che non possiamo applicare il formato [della spiegazione scientifica] per dare conto di ciò che osserviamo. L’essenza di un problema filosofico è l’inspiegabile salto, il passaggio da una cosa all’altra senza nessuna idea di quale sia il ponte che permette questo passaggio.”(18) L’onesta, ma sorprendente conclusione di Mc Ginn è dunque che la coscienza, l’Io, il libero arbitrio, il significato e la conoscenza sono, e sempre rimarranno, ‘misteri’ (se non altro perché noi non siamo abbastanza intelligenti per risolverli); e che, per questo, la filosofia è un’attività ‘futile’.(19) Ripetendo: Colin McGinn riconosce l’irrimediabile fallimento dei tentativi di risolvere con lo strumentario concettuale delle scienze naturali le questioni classiche della filosofia. Ed egli riconosce anche che concetti come quelli di coscienza, significato, libertà ecc. non possono nemmeno essere eliminati dallo strumentario filosofico, perché essi svolgono ruoli troppo importanti nella nostra vita intellettuale e nelle nostre pratiche. Così ognuno di questi concetti dà vita a un mistero per noi insolubile. A mio giudizio, McGinn è coraggioso nel trarre le conseguenze implicate dalle premesse ontologiche del naturalismo scientifico e per questo va senz’altro lodato. Tuttavia, a mio giudizio, nel fare ciò egli commette due rilevanti errori. In primo luogo, McGinn sostiene che dalla prospettiva del naturalismo scientifico libero arbitrio, coscienza, conoscenza, significato ecc. sono ‘misteri’ perché noi non saremo mai in grado di comprenderli. Questo modo di porre la questione, tuttavia, è a mio parere troppo indulgente verso il naturalismo scientifico. Un mistero è qualcosa che non siamo in grado di spiegare; e tuttavia sappiamo quale sarebbe la struttura di una sua buona spiegazione (in una parola, non sappiamo quale sia la spiegazione vera, ma possiamo immaginare che forma potrebbe avere). Così, per fare un esempio, è per noi un mistero chi fosse Jack lo Squartatore: ma possiamo immaginare che forma potrebbe avere una spiegazione di quel fenomeno (per esempio, nel caso in cui trovassimo una confessione autografa del Principe di Galles). Oppure potremmo pensare che la congettura di Golbach sia un mistero, perché sembra vera in tutti i casi conosciuti, ma non è dimostrata; tuttavia sappiamo che se se ne desse una prova in termini di induzione matematica avremmo trovato la spiegazione corretta ovvero avremmo risolto il mistero. Invece, come riconosce lo stesso McGinn, una volta assunta la prospettiva del naturalismo scientifico, noi non abbiamo la minima idea di che forma potrebbero mai avere le spiegazioni dei problemi relativi alla coscienza, al libero arbitrio, al significato ecc. Tali spiegazioni in realtà sono per noi inconcepibili – e, secondo McGinn, rimarranno sempre tale. Per questo, sarebbe più giusto dire che le questioni filosofiche citate, più che misteri, dal punto di vista del naturalismo scientifico sono vere e proprie assurdità. Il secondo punto rispetto al quale mi trovo in disaccordo con McGinn è più rilevante. Una volta stabilito che il naturalismo scientifico rende i concetti a noi più cari (libertà, conoscenza, coscienza ecc.) misteri o assurdità, mi pare che in realtà si sia offerta una convincente reductio ad absurdum del naturalismo scientifico. A mio giudizio, una concezione filosofica che non può accettare al suo interno molti dei nostri concetti fondamentali, né riesce a ridurli o a eliminarli, è da considerarsi radicalmente insoddisfacente e dovrebbe essere abbandonata. Così facendo, però si impone una domanda cruciale: rinunciando al naturalismo scientifico, dobbiamo forse rinunciare al naturalismo tout court? Dobbiamo cioè tornare a una forma, magari moderata, di anti-naturalismo? Fortunatamente questa via non è affatto obbligata. Di recente, in particolare, sono state proposte forme promettenti di naturalismo non scientistico. Queste concezioni sono, sì, rispettose della scienza – perché richiedono alle teorie filosofiche di essere compatibili con le acquisizioni scientifiche –, ma non postulano la continuità della filosofia con la scienza né riguardo al metodo né riguardo all’oggetto né riguardo agli scopi. Tuttavia, non è questa la sede per entrare nel merito di queste forme di naturalismo liberalizzato.(20) Qui ho voluto soltanto delineare i contorni della più influente concezione naturalistica contemporanea: una concezione che, peraltro, sarebbe molto ragionevole abbandonare. H. Field, Physicalism, in J. Earman (ed.), Inference, Explanations, and Other Frustrations: Essays in the Philosophy of Science, University of California Press, Berkeley 1992, pp. 271. 2 Cfr., per esempio, i saggi di questi tre autori in M. De Caro - D. Macarthur (eds.), Naturalism in Question, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2004 [trad. it. La mente e la natura, Fazi, Roma 2005]. 3 W.V. Quine, Reply to Putnam, in L.E. Hahn and P.A. Schillp (eds.), The Philosophy of W.V. Quine, Open Court, La Salle 1986, pp. 430-431. 4 W.V. Quine, Theories and Things, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1981, p. 67. 5 T. Nagel, A View from Nowhere, Oxford University Press, Oxford 1986 [trad. it. Uno sguardo da nessun luogo, Il Saggiatore, Milano 1988]. 6 W.V. Quine, Theories and Things, cit., p. 21. 7 W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, in Science, Perception and Reality, Routledge, London, 1963, p. 173. 8 D. Dennett, Freedom evolves, Viking, New York 2003, pp. 14-15. 9 Ivi, pp. 306-207. 10 L. Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus (1922), ristampa Oxford University Press, 1953, § 4.112 [trad. it., Tractatus Logico-Philosophicus, Torino 19682, p. 27]. 11 P. Kitcher, Naturalists Return, «Philosophical Review», 101, 1992, pp. 53-114. 12 W.V. Quine, “Epistemology Naturalized”, in Ontological Relativity and Other Essays, New York, Columbia University Press, 1969, p. 82 [trad. it, La relatività ontologica e altri saggi, Roma, Armando, 1986, p. ]. 13W.V. Quine, Reply to Morton White, in L. Hahn - P. Schilpp (a cura di), The Philosophy of W. V. Quine, cit., p. 664. 14 B. Stroud, The Charm of Naturalism, «Proceedings of the American Philosophical Association», 70, 1996, pp. 43-55. 15 Cfr. S. Stich, Deconstructing the Mind, Oxford University Press, Oxford 1999, cap. 6. 16Putnam, Content and Appeal of Naturalism, in M. De Caro D. Macarthur (a cura di), Naturalism in Question, cit., p. 62. 17 C. McGinn, The Making of a Philosopher, Scribner, New York 2002, p. 207. 18 Cfr. C. McGinn, The Mysterious Flame, Basic Books, New York 1999, passim, e The Making of a Philosopher, cit., p. 209. 19 Ivi, p. 210. Per alcune acute osservazioni critiche su questa concezione di McGinn (ispirata da Chomsky), cfr. A. Bilgrami - C. Rovane, Mind, Language, and the Limits of Inquiry, in J. McGilvray (a cura di), The Cambridge Companion to Chomsky, Cambridge University Press, Cambridge, 2005, pp. 181-203. 20Cfr., comunque, l’introduzione originale e quella dell’edizione italiana di M. De Caro - D. Macarthur (a cura di), Naturalism in Question, cit. |
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