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Email filosofiche
di Simona Morini e Pietro Perconti
 
 
 
Da: perconti@unime.it
A: morini@unisi.it
Oggetto: Il tempo della scuola

Cerca di ricordare quando eri a scuola e seguivi le lezioni di filosofia. Ti ricordi la sensazione diffusa che la filosofia sia una materia che riguarda la propria vita?
Nell’interesse verso la filosofia c’è qualcosa di personale. C’è l’impressione che possa risultare preziosa per questioni che ci stanno a cuore direttamente. Una questione che sta a cuore direttamente è perché devo morire o perché le persone soffrono. Le altre questioni possono avere l’aspetto di una domanda su quale sistema sociale favorisca una maggiore produzione di ricchezza o se gli altri animali vedano il mondo diversamente da noi animali umani.
Quante questioni direttamente personali stanno al centro delle cose che scriviamo o diciamo quando siamo impegnati nell’impresa filosofica professionale? Non siamo, piuttosto, alacremente impegnati a tenerci lontani da quelle domande? E non elaboriamo sofisticati argomenti circa il fatto che discutere delle questioni direttamente personali sarebbe ingenuo e che, dopo tutto, occuparsi di questioni di dettaglio e aride è, in realtà, il modo migliore per rendere un servizio anche alla possibilità di affrontare più seriamente quegli altri problemi?
Si può rispondere a quest’ultima esigenza proponendo ancora una volta la vecchia idea che la filosofia sarebbe (anche) uno stile di vita. Ma è una risposta anacronistica. La filosofia era uno stile di vita quando non c’erano le università, quando si coltivava una visione ieratica della conoscenza, quando il sapere non era specialistico. Insomma, il tempo che fu. Come potrebbero le cose andare ancora così, adesso che tutto è cambiato?
Oppure si può praticare la filosofia in una forma applicata. Pensa alle nuove tendenze in metafisica e ontologia applicate al design. Sapere cosa sono gli oggetti può tornare utile se si devono progettare oggetti: questo sembra sensato. C’è qualcosa di infido, però, in questo modo di ragionare; credo sia l’idea stessa di applicazione. Richiama alla mente cose come l’applicazione della teoria alla pratica o l’applicazione di una norma a una fattispecie di reato. Contesti in cui ci sono schemi concettuali elaborati prima di aver commercio con le cose e a cui le cose dovrebbero, si spera, conformarsi. Altrimenti, si dovrebbe rivedere la teoria o la norma.
Ma pensa ai dialoghi di Platone. Chi è l’uomo giusto, Socrate? Ha questo aspetto, quest’altro? Come fai a dire così? Vediamo le cose da un’altra prospettiva! Forse, l’aspetto di queste conversazioni è posticcio, Platone potrebbe aver voluto mettere in scena le cose in questo modo, che non è applicativo, ma induttivo e personale, semplicemente perché risulta efficace. In fondo, sapeva scrivere bene e probabilmente parlava ancora meglio. Ma, qualunque sia stata la sua intenzione, ha praticato un genere di conversazione filosofica che solitamente verte sul tipo di questioni che prima ho chiamato direttamente personali.
Forse si può praticare autenticamente la filosofia applicata o la filosofia come stile di vita. Ma come? E se non si può, dobbiamo abbandonare le domande da ragazzi, magari assumendo l’atteggiamento colmo di sussiego dei professori universitari?


Da: morini@unisi.it
A: perconti@unime.it
Oggetto: I filosofi che cadono nei pozzi e quelli che consigliano i sovrani

Forse chi ama la filosofia e l’ha scelta come mestiere non è nella posizione adatta per rispondere a queste domande. Finiscono per essere domande sul senso di quello che si sta facendo, domande che, alla fine, dipendono da quello che già si è o si è diventati. Hai mai notato la reazione delle persone quando si dice loro che si studia o si insegna filosofia? Sia che ti guardino con ammirazione e una punta d’invidia sia che assumano un’aria condiscendente di vago disprezzo o compatimento, si ha l’impressione di essere considerati in primo luogo e comunque persone che vivono fuori dal mondo. Anche alcune cose che tu dici possono essere tradotte, mi sembra, nelle domande sul significato, sul come e sul perché, del vivere “fuori dal mondo”.
Ci sono varie ragioni per compiere questa scelta, e vari risultati. Ai filosofi piace dipingere se stessi in toni lusinghieri, presentandosi come amanti del sapere, persone curiose, capaci di “provare meraviglia”, di andare oltre la superficie delle apparenze. Ma si potrebbe pensare anche che sono persone timorose e prudenti che invece di buttarsi nella vita e imparare dalle proprie esperienze e dai propri errori, preferiscono rifletterci sopra, immaginando cosa accadrebbe se si agisse in un certo modo, calcolare le conseguenze, chiedersi prima il perché, assicurarsi che quella che si fa sia la cosa giusta, o la cosa migliore da farsi. Dunque, tendono a pensare e a leggere laddove altri vivono, si divertono o soffrono.
Qui, normalmente, si tende a scivolare nella classica distinzione tra ragione e sentimento. Ma vorrei evitarlo. Sia chi ama stare nel mondo, sia chi ama rifletterci sopra, usa la ragione e i sentimenti, soltanto che lo fa in modo diverso e per scopi differenti. O almeno, così mi sembra.
Cerco allora di mettermi fuori dal punto di vista filosofico e di limitarmi alle questioni personali, quelle che normalmente interessano tutti. Cosa si vuol dire, per esempio, quando si rimprovera a qualcuno di “aver imparato a vivere sui libri”? Cosa si guadagna, leggendo e studiando, e cosa si perde, esattamente? E qui vengo a una delle tue domande: “non elaboriamo sofisticati argomenti circa il fatto che discutere delle questioni direttamente personali sarebbe ingenuo e che, dopo tutto, occuparsi di questioni di dettaglio e aride in realtà è il modo migliore per rendere un servizio anche alla possibilità di affrontare quegli altri problemi?”.
E’ un problema che riguarda l’oggetto della filosofia; vorrei coglierne una sfumatura e estenderla alle sue modalità, enfatizzandone l’aspetto astratto e teorico. Volendo, si può presentare anche in campo scientifico, con risvolti più “tecnici”. Per esempio, cosa ci si guadagna a elaborare modelli matematici della realtà, naturale o sociale, a formalizzare il discorso, ecc.?
Io ho l’impressione che a questa domanda non si possa dare una risposta in nome della filosofia in generale e che le risposte non possano che essere particolari e individuali (cioè, in un certo senso, fuori dalla teoria): alcune persone ci guadagnano, altre no. Ci sono persone che il pensiero e la lettura arricchiscono e persone che invece si inaridiscono e si impoveriscono. (Esattamente come ci sono persone che buttandosi nella vita imparano e altre che semplicemente accumulano errori o esperienze sbagliate.) L’aneddotica esprime bene questa diversità: ci sono filosofi che cadono nei pozzi, altri che consigliano i sovrani, altri che vincono con il solo ingegno flotte potenti. Ma d’altra parte la storia trascura i falliti, quelli che si rendono ridicoli, di cui resta solo qualche traccia nelle commedie di Aristofane, per non parlare poi di quelli che hanno prodotto dei veri e propri danni .
Ho allargato un po’ il discorso, rispetto alle tue domande. Perché ho l’impressione che prima di chiederci, come filosofi, perché la filosofia tende ad allontanarsi dalle domande semplici che portano alcune persone a sceglierla e ad amarla, possa essere utile chiedersi, come spesso fanno i non filosofi, se e come essa sia capace di trattarle. A volte, quando mi interrogo sul rapporto tra la filosofia e la vita, ho la sensazione di non capire esattamente quale sia domanda.