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Corpo: artificializzazione e trasparenza
di Tomás Maldonado
 
 
 
La progressiva artificializzazione del corpo è un fatto ormai palese. Ed è sicuro che, nel futuro, nuove protesi, sempre più raffinate, verranno ad arricchire le sue attuali prestazioni. Dunque, il problema per me non è tanto la difesa a oltranza della sacralità naturale del corpo, ossia credere che tra tecnica e corpo non possano essere, come per altro sempre è accaduto, momenti di convergenza funzionale. Non c’è dubbio che tra vita naturale e vita artificiale i confini appaiono oggi sempre più sfuggenti.La tesi sostenuta da G. Canguilhelm, trent’anni fa, sulla continuità tra la vita e la tecnica, tra l’organismo e la macchina, sembra trovare ora definitiva conferma (G. Canguilhelm). Non ci sono gli androidi da una parte e gli non-androidi da un’ altra. Gli scambi sono adesso intensi e frequenti, e i fenomeni di (quasi) ibridazione e simbiosi sono all’ordine del giorno (K.M. Ford, C. Glymour e P.J. Hayes). D’altronde, il corpo è stato sempre condizionato (e persino determinato e conformato) dalle tecniche socio-culturali. Basta citare le “tecniche del corpo” (M. Mauss) e le tecniche (o pratiche) sociali coercitive che si esercitano su un corpo diventato oggetto, su un “corpo-oggetto” (M. Foucault). Le prime ci spiegano come gli uomini, in ogni società, sanno servirsi del proprio corpo; le seconde come gli uomini, in ogni società si servono del corpo degli altri ai propri fini. Il tema è di estrema importanza nella società ipermoderna. Esso riguarda innanzitutto il modo in cui il nostro corpo vivrà l’avventura di una continuità tra naturale e artificiale portata alle estreme conseguenze. E le incognite, diciamolo pure, sono molte. Come si configurerà, in tale prospettiva, l’interscambio del nostro corpo con l’ambiente e con gli altri corpi? Nasceranno da questo interscambio nuove forme di sensorialità, sensualità e sensibilità, o solo nuove varianti (o nuovi rituali) di quelle nuove, dovremmo attribuirle, ancora una volta, alla presunta qualità congenita delle donne, e solo delle donne, di agire creativamente in questo campo. Oppure, l’identificare le donne, sempre e comunque, con le SSS non è altro che uno stereotipo interpretativo ideato dagli uomini per segregare le donne, uno stereotipo condannato a sparire?


“Io canto il corpo elettrico”, scriveva, nel 1855, il poeta statunitense Walt Whitman. Per questo grande apologeta della sensualità corporale, l’aggettivo elettrico era inteso nel senso di esaltante, eccitante, provocante. Oggi si direbbe elettrizzante. Ma Whitman, come è noto, non era solo un fervido cantore delle magnificenze del corpo, egli era anche, e in non minor misura, un panegirista dei nuovi paesaggi della allora emergente realtà tecnico-industriale. Basta ricordare in quali termini egli celebrava, in un famoso poema, la bellezza della locomotiva che, non a caso, veniva descritta come un corpo, come un “corpo nero cilindrico, ottoni dorati e acciai argentei”. Un corpo che, in quanto “emblema di movimento e potere”, era per Whitman da considerarsi il simbolo, appunto corporale, della modernità.
Pur tuttavia, il “corpo elettrico” invocato da Whitman non è solo il corpo in grado, per così dire, di elettrizzarci, di affascinarci fino al punto di renderci succubi della sua avvenenza, delle sue bellezze manifeste o nascoste. E’ più che probabile che Whitman avesse in mente pure un vero e proprio corpo elettrico. Dunque, non solo elettrizzante, ma anche elettrizzato. Un corpo diverso da quello che, per millenni, è stato il corpo umano.
Possiamo immaginare che egli, a suo modo, si facesse interprete della sensazione, assai diffusa nel suo tempo, che un nuovo corpo umano, appunto un corpo elettrico, fosse in procinto di nascere, ossia un corpo destinato a usufruire dei vantaggi reali (o presunti) di quel mondo elettrico di cui, più tardi, il suo connazionale Edison sarà il principale artefice. Benché l’intuizione ottocentesca di un corpo elettrico, sensu stricto, sia stata, in linea di massima, confermata, oggi si ritiene più appropriato, giustamente, parlare di corpo elettronico. E la questione non è meramente terminologica. A ben guardare, il nuovo corpo che ora ci occupa (e ci preoccupa) è di fatto un corpo elettronicamente attrezzato, un corpo assistito da congegni e dispositivi resi possibili dall’avvento, cinquant’anni fa, della rivoluzione microelettronica.
Evidentemente, l’abbinamento corpo ed elettronica viene recepito da molti come un momento di svolta nella storia del corpo umano. Il nostro corpo sarebbe diventato a tal punto artificiale che taluni, forse (come vedremo) con troppa disinvoltura, si azzardano persino a reputarlo un corpo ormai post-umano. Tuttavia, sarebbe un errore credere che il nuovo corpo sia da giudicarsi artificiale solo, ed esclusivamente, per la sua capacità di incorporare artefatti elettronici nel suo assetto strutturale. Ci sono altri fattori che svolgono oggi un ruolo, in proposito, non meno importante. Alludo, per esempio, all’Ingegneria genetica, alla procreazione assistita e all’uso di psicofarmaci.
Beninteso, il ricorso a tutte queste tecnologie costituisce, di sicuro, una novità di vasta portata, giacché esse vengono di fatto ad accelerare, a un ritmo mai visto prima, il processo di artificializzazione del nostro corpo. Va detto, però, che l’artificializzazione, in sé e per sé, non è una novità. Essa non risale al recente uso delle suddette tecnologie.
Dalle più remote origini, il corpo umano ha mostrato una connaturata tendenza ad artificializzarsi, a farsi oggetto di artificializzazione. Sia chiaro: un corpo, per così dire, in “stato di natura”, privo di ogni artificio, non è mai esistito. In fin dei conti, il corpo è stato sempre artificializzato, perché sempre, in un modo o nell’altro, il corpo è stato acculturato. Ritengo, dunque, che non ci sia nulla di nuovo nell’assunto che l’artificializzazione abbia avuto, e continui ad avere, un compito decisivo nelle strategie di progettazione (o riprogettazione) del nostro corpo, strategie destinate, in ultima analisi, a far fronte, a livello individuale e collettivo, alle sfide evolutive ed ambientali.
Nuovo invece, come abbiamo già rilevato, è l’altissimo grado di artificializzazione che, nel bene o nel male, il corpo sta raggiungendo nella nostra epoca. Per quanto mi concerne, in questa sede vorrei occuparmi di un particolare tipo di artificializzazione che s’identifica con quei congegni tecnici noti come protesi.
Vale a dire, congegni tecnici che si aggiungono al nostro corpo (o s’inseriscono in esso) a scopo di recare ausilio o di sostituire un organo la cui funzionalità, per vizi congeniti o acquisiti, è compromessa. Non si può travisare il fatto che, negli ultimi tempi, il corpo è diventato sempre più assistito da protesi di ogni genere. Per dirla in breve: il corpo è diventato sempre più protesico. Tuttavia il corpo protesico, il corpo che funge da soggetto tecnico (o meglio tecnificato), non ha solo una rilevanza prestazionale o terapeutica, ma anche conoscitiva. E ciò per il semplice motivo che munire un corpo di protesi significa, di solito, un notevole arricchimento delle nostre conoscenze, tanto dell’organo implicato quanto delle tecniche più adatte per realizzare la protesi richiesta.
Sebbene il processo di artificializzazione tramite protesi sia antichissimo, la sua rilevanza conoscitiva, appena accennata, risulta evidente solo negli ultimi secoli, allorché si constata una maggiore complessità delle funzioni che le protesi sono chiamate a svolgere. Al riguardo, è a dir poco curioso notare che, mentre l’artificializzazione del corpo ha continuato, per millenni, a progredire, le nostre idee sulla struttura e sul funzionamento del corpo sono rimaste per lungo tempo vaghe, incerte, superficiali. Anzi, gran parte di esse - oggi lo sappiamo - erano sbagliate.
Nondimeno, le cose cambiano radicalmente quando, a un certo punto, lo stesso processo di artificializzazione investe aree in cui appariva imprescindibile una più esatta conoscenza del corpo. In altre parole, il corpo non poteva più continuare a essere una “scatola nera”.
Certo, gli sforzi per svelare i suoi segreti, ossia per renderlo meno opaco, più trasparente, non hanno avuto subito esiti positivi. Anzi, si sono impiegati secoli, e il processo è ancora in corso. Fino a pochi secoli fa, i mezzi a disposizione erano stati soltanto i sensi del medico: l’udito, il tatto e l’odorato. La vista era importante, ma giudicata meno affidabile degli altri tre. Si dovrà aspettare l'arrivo dei grandi anatomisti (e dissettori) del Rinascimento -- Leonardo da Vinci, Berengario da Carpi, Andrea Casalpino, Andrea Vesalio e Girolamo Fabrici -- per dare alla visione una centralità che non aveva mai avuto prima. Una visione che si identifica con la dissezione, che sfida l'opacità del corpo, la sua presunta sacralità, che si propone di rendere visibile ciò che in esso è invisibile, che vuole indagare meticolosamente come è costruito e come funziona l'opificio - la fabrica - del corpo umano.
Si inaugura così, nella ricerca del corpo, il pervasivo regno dell'occhio.
Ma la grande svolta è stata l’avvento della radiologia medica, ossia la scoperta rivoluzionaria dei raggi X da parte di Röntgen. Come è noto, però, Röntgen, non era un medico, bensì un fisico sperimentale. La radiologia medica nacque, come il nome stesso indica, da una convergenza tra fisica delle radiazioni e medicina. E anche dai contributi della chimica, della biologia e delle tecnologie strumentali. Questa forte tendenza interdisciplinare delle sue origini non si ferma qui. Al contrario, si accresce con il tempo.
Dagli inizi degli anni Ottanta del Ventesimo secolo, il formidabile potenziale di modellazione e simulazione fornito dalla grafica computerizzata apre nuove, inaudite prospettive alla radiologia medica. Tanto nella sua componente diagnostica, quanto in quella terapeutica, e persino chirurgica. Questo nuovo sviluppo porta a risultati tecnico-scientifici che, facendo ricorso alle tecniche di radiazioni ionizzanti o non-ionizzanti, rendono sempre più ricca e dettagliata la conoscenza di un universo che l'opacità somatica aveva sempre nascosto, cedendo tutt’al più alcuni dei suoi segreti soltanto attraverso atti invasivi. Restava però insoluto il problema di come tradurre questa conoscenza in modelli o simulazioni tridimensionali che consentissero di intervenire operativamente, anzi interattivamente e in tempo reale, sulle immagini ottenute. Ciò è stato reso possibile dalle nuove tecniche di radiologia medica computerizzata, ma anche dai nuovi sistemi informatici di virtualizzazione che, in un certo senso, vengono a integrare quelle tecniche. Il medical imaging viene così arricchito di nuovi strumenti di visualizzazione e di nuove tecniche nella modellazione dei solidi. Si conquista, d'un tratto, la possibilità di vedere gli organi e gli apparati del nostro corpo in quattro dimensioni (tre spaziali e una temporale). Ora, per la prima volta nella storia della clinica medica, si è in grado di osservare in vitro, mediante un monitoraggio dinamico-interattivo in uno spazio tridimensionale, le strutture e le funzioni del corpo umano in vivo. E non solo: si è altresì in grado di intervenire (anche chirurgicamente) su tali strutture e funzioni. Ma l’ultimo passo, forse il più innovativo, tendente a conquistare una assoluta trasparenza del corpo, è il ”Visible Human Project” sviluppato di recente negli Stati Uniti. Il “Visible Human Project” consiste nel sezionamento trasversale in porzioni di un millimetro del corpo di un cadavere umano congelato. Le immagini così ricavate vengono, tramite le tecniche di tomografia e di risonanza magnetica, rielaborate digitalmente. E il risultato è, per molti versi, sbalorditivo: una mappa tridimensionale del corpo di una formidabile resa realistica. Con questo modello interattivo di rappresentazione, vengono ora rese fattibili, e pertanto operabili, molte perlustrazioni conoscitive del corpo umano finora tecnicamente impossibili. Diciamo che il “Visible Human Project, a prescindere dai suoi aspetti macabri e dalle perplessità etiche che si possono al riguardo sollevare, è uno dei progressi più sensazionali nella lunga marcia verso una sempre maggiore trasparenza del corpo umano, con tutti gli ovvi vantaggi che essa potrà comportare nella sfera della diagnostica, della terapia e della chirurgia.
Fino qui ho analizzato lo sviluppo dell’artificializzazione protesica del corpo, e mi sono altresì soffermato sull’influenza che hanno avuto in tale sviluppo i progressi nel campo delle tecniche di visualizzazione.
Benché si possano e si debbano avanzare dubbi e perplessità su non pochi aspetti di questo tipo di artificializzazione – si pensi solo, a modo di esempio, alla questione degli innesti di protesi a livello corticale – appare evidente che tali progressi sono sempre e comunque il risultato di un atto di fiducia nel corpo umano. E cioè: un atto di fiducia nel fatto che, malgrado tutte le sue debolezze e mancanze, il nostro corpo è in grado, avvalendosi di sofisticate integrazioni tecniche, di migliorare le sue condizioni di vita e il suo rapporto con il mondo circostante. Atto di fiducia presente anche nel caso in cui la impresa fallisce o diviene la causa di effetti indesiderati. In fondo, la scelta sottostante riguarda la volontà di non rinunciare alla cura del presente e del futuro del corpo umano. Corpo umano, sia chiaro, che non è un’astrazione, bensì il corpo concreto, quotidiano, di tutti noi, donne e uomini in un determinato momento storico. Un corpo che, con lievi modifiche, è il nostro corpo da migliaia di anni, da quando l’Homo Sapiens Sapiens diventò tale. Un corpo, di certo, precario, vulnerabile e imperfetto. Un corpo, diciamo, senza pace con se stesso, lacerato di continuo da esperienze contrapposte. Un corpo che è sorgente di piaceri, ma anche di sofferenze; un corpo che amiamo, ma che talvolta non amiamo; un corpo che vogliamo imperituro, ma che sappiamo mortale. Del resto, non si può dimenticare che il nostro corpo non è quello, come si crede, che noi abbiamo, ma quello, volenti o nolenti, che noi siamo.
Per questo motivo, e per molti altri ancora, la difesa del nostro corpo è, a fil di logica, una scelta d’obbligo. Almeno per coloro, e mi includo tra questi, che sostengono la tesi – lo confesso, un poco fuori moda – che alla specie umana, come essa è oggi, valga la pena di assicurare una relativamente lunga vita sul pianeta.
Tutt’altra è la posizione di coloro che vedono nei progressi della artificializzazione la possibilità di creare una alternativa, diciamo, apocalittico-trascendentale al corpo umano. Essa trova vasto consenso tra esponenti della “Body Art”, della letteratura fantascientifica e dell’intelligenza artificiale. Per costoro il corpo umano non gode di molta stima. Alcuni, i più indulgenti, lo vedono con bonaria, rassegnata diffidenza. Altri invece esprimono nei suoi confronti un protervo, astioso disprezzo. Il nostro corpo sarebbe, per loro, antiquato, sorpassato, infine: obsoleto. Rimasto immutato per migliaia di anni - o forse più - dovrebbe ora essere cambiato, sostituito da un altro più all'altezza delle nuove, incalzanti sfide che provengono da un ambiente sempre più condizionato dalle nuove tecnologie.
Stelarc, un artista australiano, noto per le sue fantasiose performances bioniche, scrive: "È tempo di domandarsi se un corpo bipede, dotato di visione binoculare e con un cervello di 1400 centimetri cubici, costituisce una forma biologica adeguata". La sua risposta è negativa. E aggiunge: "Non è più di alcun vantaggio rimanere umani o evolversi come specie, l'evoluzione termina quando la tecnologia invade il corpo".
Affermazioni di questo genere sono insensate, e per certi versi persino tenebrose, ma il problema è che esse trovano nei media ampia risonanza, e pertanto diffusa credibilità. Infatti, sono ormai molti coloro che, confortati peraltro dall'autorevolezza di Marvin Minsky, "pensano che il corpo si debba gettare, che il wet ware, la materia umida all'interno della scatola cranica, il cervello, sia da sostituire". Ritengo che la posta in gioco, filosoficamente e politicamente parlando, è troppo alta per prendere alla leggera queste affermazioni. La verità è che negli scellerati discorsi sulla necessità di gettare il corpo umano (cervello incluso) nella pattumiera degli oggetti consumati, si cela il sospetto (e nel mio caso più che il sospetto) che dietro tali discorsi si nasconda la vecchia avversione del cristianesimo nei confronti del corpo.
Questa volta riproposta nelle vesti di un’ideologia neomeccanicistica e fantascientifica. Non c’è dubbio che la pregiudiziale contro il corpo –"l’abominevole corpo"– è una eredità che ha segnato profondamente i rapporti con noi stessi e con gli altri.
Già Nietzsche lo aveva intuito, e da ciò derivava il suo odio contro i "dispregiatori del corpo" ("die Verächter des Leibes").
Del resto, la storia ci ha lasciato un insegnamento che non si può (né si deve) dimenticare: che il disprezzo del corpo (soprattutto di quello degli altri) è stato troppo spesso l'anticamera dell'efferato annichilimento dei corpi di donne e uomini. Lo testimonia largamente l'esperienza dei campi di sterminio nazisti, ma anche quella dell’Inquisizione a carico del “Sant’Uffizio”.
Si dovrebbe, dunque, andare cauti con la teoria di un corpo umano obsoleto e inefficiente da gettar via, e altrettanto con l'idea di un corpo da riprogettare sulla base di un modello ideale. Anche questo essenzialismo biologico ci porta ricordi tutt'altro che piacevoli. Ma se le teorie di questi moderni "despregiatori del corpo" possono avere, come abbiamo visto, implicazioni moralmente e politicamente esecrabili, ciò non significa che il tema attinente al rapporto tra corpo e tecnologia non sia cruciale nella società ipermoderna.
Dunque, il problema per me non è tanto la difesa a oltranza della sacralità naturale del corpo, ossia credere che tra tecnica e corpo non possano esservi, come per altro sempre è accaduto, momenti di convergenza funzionale. Sicuramente, tra vita naturale e vita artificiale i confini appaiono oggi sempre più sfuggenti. La tesi sostenuta da G. Canguilhelm, trent’anni fa, sulla continuità tra la vita e la tecnica, tra l'organismo e la macchina, sembra trovare ora definitiva conferma. Non ci sono gli androidi da una parte e i non-androidi dall’altra. Gli scambi sono adesso intensi e frequenti, e i fenomeni di (quasi) ibridazione e simbiosi sono all'ordine del giorno.
D'altronde, il corpo è stato sempre condizionato (e persino determinato e conformato) dalle tecniche socio-culturali. Basta citare le "tecniche del corpo" (M. Mauss) e le tecniche (o pratiche) sociali coercitive che si esercitano su un corpo diventato oggetto, su un "corpo-oggetto" (M. Foucault). Le prime ci spiegano come gli uomini, in ogni società, sanno servirsi del proprio corpo; le seconde come gli uomini, in ogni società, si servono del corpo degli altri per propri fini.
Abbiamo già discusso come l’artificializzazione del corpo umano è oggi, più che mai, fortemente condizionata dagli sviluppi delle nuove tecnologie. E per nuove tecnologie s’intende oggi, come è noto, le tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione, le biotecnologie, le tecnologie dei nuovi materiali e, non per ultimo, le tecnologie legate alla robotica.
Vorrei soffermarmi brevemente su alcune questioni emerse nel campo della robotica, questioni che, per la loro natura, hanno diretta attinenza con il nostro tema. Molti esperti in questo campo, pur prendendo le distanze da un approccio globalmente sostitutivo del corpo umano, approccio molto caro, come abbiamo visto, ai paladini del cyberbody, sono persuasi che certe prestazioni sensoriali del nostro corpo possano essere svolte più efficacemente da sensori artificiali. E tra questi, in particolare, i sensori artificiali tattili che sono fondamentali nei robot manipolatori e assemblatori.
Non c’è dubbio che, negli ultimi tempi, si sono verificati significativi progressi nel campo dell’artificializzazione del tatto. E mi riferisco, di preciso, ai progressi compiuti nell'area dei sensori ed effettori tattili artificiali. Nella stragrande maggioranza si tratta di dispositivi che riguardano la pressione e la “retroazione di forza". Occorre ammettere, però, che per quanto concerne i tentativi destinati a sviluppare pelle e dita sintetici in grado di sentire, per esempio, la superficie levigata o ruvida di un oggetto, i risultati non sono, neppure lontanamente, confrontabili con le prestazioni della pelle e delle dita naturali.
Di solito, si dimentica un punto importante: che il tatto naturale dell’uomo non è solo contatto, che toccare, per così dire, non è solo toccare. Ci sono, invero, molteplici fattori che il nostro tatto recepisce senza che ci sia un vero e proprio contatto diretto con la nostra pelle.
La pelle che, notoriamente ricopre l'intera superficie del nostro corpo, non è solo un passivo involucro che ci protegge dall'ambiente esterno e ci separa dal mondo. La pelle è uno dei più efficaci meccanismi per interagire con il mondo. E' la sede di sensibilità della più svariata natura. "La pelle ha occhi" sostiene Diane Ackerman ricorrendo a un'azzardata ma calzante metafora. E si potrebbe aggiungere, forzando ancora più la metafora, che gli occhi, dal canto loro, hanno pelle. In altre parole, il vedere può essere inteso come un prolungamento, come una estensione del toccare, ma anche il toccare del vedere.
Diciamolo pure: il tatto artificiale è, al giorno d’oggi, una pallida ombra del tatto naturale. Ed è difficile immaginare, allo stato attuale delle conoscenze, che la situazione possa cambiare nel futuro.
Vorrei, per concludere, riallacciarmi all’asserzione, già citata all’inizio, di Stelarc. L’artista australiano, come si ricorderà, diceva testualmente: "Non è più di alcun vantaggio rimanere umani o evolversi come specie, l'evoluzione termina quando la tecnologia invade il corpo".Qui emerge con chiarezza esemplare la tesi, sostenuta anche da Moravec, che la specie umana sarebbe, in quest'ottica, destinata a sparire e che al suo posto, prima o poi, dovrebbe subentrare una nuova specie, una specie post-umana, ossia, non-umana. Non si dice quale, tra l’altro, sarà la forma corporale che assumerebbe la nuova specie post-umana, Di solito, si preferisce rimanere nel vago. Ma taluni, forse i più disinibiti, lasciano intuire che l’apparenza del corpo post-umano sarà molto simile a quella a cui la letteratura fantascientifica e gli “horror film” ci hanno ultimamente abituati. Per capirci: quella dei “cybor” o dei replicanti.
Tra i numerosi argomenti a sostegno di questo sconcertante scenario, ve n’è uno che, mi pare, meriti particolare attenzione. Mi riferisco, di preciso, all’affermazione che la difesa della nostra specie sia dovuta solo, ed esclusivamente, al perdurare di un antropocentrismo di maniera, a un ostinato rifiuto ad ammettere che la nostra specie possa scomparire, come qualsiasi altra, per agevolare l’avvento di una specie più avanzata della nostra.
Il chiamare in causa, in tale contesto, l’antropocentrismo ha implicazioni che non vanno minimamente sottovalutate. E’ superfluo ricordare, perché troppo noto, che la fine della cosmogonia geocentrica, ad opera di Copernico, Keplero, Galileo e Newton, segna anche, al contempo, la fine dell’antropocentrismo. Ovverosia, la fine dell’idea, molto radicata nella tradizione teologico-religiosa, che l’uomo, in quanto abitante di una terra che si credeva al centro dell’universo, era da considerarsi dal canto suo una sorta, diciamo, di centro del centro.
E’ nato così un relativismo nei confronti del ruolo della nostra specie nell’universo, un relativismo che si è dimostrato particolarmente fecondo nei più svariati campi del sapere. La sua influenza si è fatta anche sentire, e non poteva essere altrimenti, nell’antropologia. Dopo l’ultima guerra mondiale, infatti, il relativismo è stato l’orientamento dominante nell’antropologia, in specie in quella culturale. Ciò nonostante, si deve prendere atto che ultimamente alcuni illustri esponenti del relativismo culturale, di fronte a una sua versione troppo dogmatica e riduttiva, hanno dimostrato una crescente insofferenza al riguardo.
Uno di loro, Glifford Geertz, in un suo recente libro, ha ipotizzato una rifondazione del relativismo culturale su nuove basi. Vale a dire: un relativismo che, facendo tesoro di alcuni pertinenti rilievi critici avanzati dai suoi oppositori, ne proponga una versione più sottile e articolata. Ciò che egli ha chiamato un “anti-anti relativismo”. A mio giudizio, oggetto di una simile revisione critica dovrebbe essere anche l’anti-antropocentrismo, in particolare nelle forme caricaturali che esso assume ai nostri giorni nelle deliranti, fumose elucubrazioni relative a una futura specie post-umana.
Vorrei fosse chiaro che non sto suggerendo che, per principio, si debbano escludere dal nostro interesse scientifico e filosofico i mondi pre-umani e post-umani, ossia, quei mondi in cui noi, come specie, siamo stati assenti nel passato o lo saremo nel futuro. Nulla ci è più estraneo di questo ottuso antropocentrismo che, per secoli, ha intralciato lo sviluppo della conoscenza in tutti i campi del sapere. Tuttavia, ciò malgrado, è umanamente spiegabile, se non giustificabile, che noi umani, in quanto membri dell’anacronistica specie umana, siamo poco motivati a occuparci dell’avvento di una specie post-umana, una specie che, per aggiunta, sarebbe chiamata a sostituirci senza guardarci troppo in faccia.
Dopotutto, credo che sia un diritto, più che legittimo, il non lasciarci coinvolgere, oltre il necessario, in promesse di mondi possibili (o impossibili) che esulano dall’orizzonte di vita della nostra specie. Con questo rilievo, lo so, rischio di essere sospettato – forse con qualche fondamento – di cedevolezza nei confronti dell’antropocentrismo. Ma io sono persuaso che una certa dose, seppur minima, del vecchio antropocentrismo può contribuire a ridarci speranze sulle sorti del nostro corpo, e pertanto della nostra “humana conditio”, in un momento, come il presente, in cui i più foschi vaticini sul suo futuro prendono sempre più ascolto. In fin dei conti, vi è nell’antropocentrismo un nucleo di buon senso che, di fronte agli eccessi dell’anti-antropocentrismo, può essere utile recuperare.
Il fisico italiano Toraldo di Francia ha osservato: “Dobbiamo deciderci a riconoscere che è legge biologica – dunque naturale – che i topi siano topocentrici, i gatti gattocentrici, gli uomini antropocentrici. Guai se fosse diversamente, nessuna specie si sarebbe salvata dall'estinzione”.

[Relazione per il convegno “Il corpo umano tra tecnologia, comunicazione e moda”, Triennale di Milano, Milano, 11-12 gennaio 2001
pubblicato in Corpo futuro. Il corpo umano tra tecnologie, comunicazione e moda, a cura di Leopoldina Fortunati, James Katz, Raimonda Riccini, Franco Angeli, Milano 2002, pp. 25-34].


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